A proposito della Bhavagad-Gita di A. Porte

( tratto dalla prima serie di 3millenaire, a cura di Luciana Scalabrini )

Conclusione: non tradurre il titolo. Lasciarlo risuonare in sanscrito, con divertimento e riconoscenza. E, non tradurre affatto  quel testo epico, imparare il sanscrito. Per questo, non è necessario rasarsi il capo, vestirsi di arancione o di fare voto di castità. Basta semplicemente farlo, per leggere l’originale. Leggere una ricetta fa venire l’acquolina, ma lascia lo stomaco vuoto. Il piatto che si gusta calma la fame e la curiosità.

La stessa cosa per questi versetti che contengono la sostanza dei punti di vista indiani sui rapporti tra l’homo sapiens e la muta melanconia del Cosmo. Qui nessuna lagnanza per i rari lettori che non conoscono il sanscrito, va da sé!

Si tratta solo di segnalare l’estremo pericolo che c’è a consegnare in una lingua diversa un pensiero elaborato sotto altri cieli per uomini particolari e adatti a farlo in una lingua scolpita come il sanscrito: la confusione di senso rischia di essere fatale!

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La Bhagavad- Gita è un poema prestigioso, ma poco conosciuto. Ha il valore di un vangelo, cioè l’importanza di un testo maggiore per la religione indiana è il riferimento, la sorgente, la voce sempre ascoltata di un Insegnamento.

L’enunciato completo è : “ L’insegnamento dato nel Canto del Glorioso Beato” e appartiene a una delle due grandi epopee indiane, il Maharabhata.(La seconda è il Ramayana).

Le Mahâbhârata  è la storia di un conflitto fratricida; due clan si contrastano, i Kaurava e i Pandava, due linee discendenti da Baharata, antico fondatore della razza indiana. Ed è un poema che merita di essere paragonato ad un poema omerico, composto da 90000 versetti, maestoso come l’Hymalaia e il Gange.
Nel cuore di questo affresco, c’è un gioiello, la Bhagavad- Gita, di cui Heinrich Zimmer ha scritto: “ Il colpo di genio della  Gita consiste nel giustapporre e coordinare tutte le discipline fondamentali dell’eredità religiosa così complessa dell’India”.

L’azione appare singolarmente patetica: Arjuna, uno dei cinque fratelli Pandava, sente, abbracciando con lo sguardo il campo di battaglia, un grandissimo scoramento. Si rivolge verso il cocchiere, che è nientemeno che Krishna, il capo del clan dei Yadava, alleati dei Pandava, cioè l’Avatar, l’incarnazione di Vishnu, la suprema coscienza divina.

E Arjuna si rivolge a Krishna con queste parole:

« O Krishna, quando vedo i miei pronti a battersi,

le mie membra tremano, la mia bocca si dissecca,

il mio corpo trema e i miei capelli si drizzano,

il mio arco cade dalle mie mani, la febbre mi consuma,

io vacillo e il mio spirito se ne va….

Delle ragioni per battersi? Non ne vedo che di assurde,

e non vedo niente da guadagnare se uccido i miei combattendo..

O Krishna, io non desidero né vittoria né regno, né piaceri.

Che cos’è un regno o Govinda,

che cos’è l gioia , cos’è la vita?

(Bhagava-Gita, I, 28 a32 )

E’ bello e combattente ed è sincero Ed è privo di ogni emotività. Arjuna continua il suo discorso sviluppando con discernimento e metodo le funeste conseguenze di un bagno di sangue. Per poco la situazione non è cornelliana ( ancora un epiteto per connotare un tipo di crisi fino ad allora senza immatricolazione. Non è inverosimile supporre che  la crisi di coscienza del nostro eroe sia senza età. E poi, l’autore non ha lasciato l’indirizzo nella storia, mentre Omero e Corneille si sa più o meno chi erano).

Arjuna è chiaroveggente, non ha  nessun dubbio sulla realtà della sua disperazione

La risposta di Krishna, sempre attenta e a volte sorridente e le repliche dell’eroe perso e depresso animano i 18 capitoletti di quell’episodio maggiore della vasta epopea.

Il contesto, che ha il carattere di dialogo, non deve essere perso di vista, per n in un intrattenimento edificante; occorre conservarne lo spirito di chanson de geste per non lasciare che il testo che ha un forte contenuto religioso e filosofico, vada al di là di ciò che è teatro, perché il teatro è vita e la vita è teatro. E si accetti questa asserzione leggermente modificata come una constatazione a tre dimensioni di cui la profondità deve essere disegnata con le sue linee di fuga che si perdono all’orizzonte delle origini, dove gli uomini a un dato momento non possono più andare.

Questo equivale a dire, con più semplicità, che abbiamo a che fare con un’opera d’arte, un poema, anche se vi si dibatte con minuzia e molti chiarimenti, il problema impenetrabile e insolubile dell’azione.

Non uno scambio di vedute al di sopra del racconto, ma una meditazione in uno stato d’urgenza.

Certo, nella trama di questo lungo dialogo drammatico, i molteplici e disparati argomenti trovano un’armonia: una prospettiva dualista elaborata dal sistema analitico Samkhya; i primi dati di ciò che si sa essere lo yoga, termine che traduce la maggior parte del tempo nel contesto del poema è tutt’altra cosa che lo…Yoga! Senza contare le reminiscenze propriamente vediche che sono lontane dall’essere aneddottiche e prendono un significato coerente alla luce dei lavori di Georges Dumézil (Georges Dumézil : Les Dieux des Indo Européens, P. U. F.). Così Arjunaè potentemente lacerato dalla sua disperazione :

« La compassione è un male che mi allontana da me stesso

Ti interrogo perché ciò che devo fare nuoce al mio discernimento.

Ciò che sarebbe meglio, dimmelo chiaramente,

Sono il tuo discepolo, mi sono rivolto a te, istruiscimi!

Perché non vedo ciò che mi angoscia e mi toglie le forze,

né il possesso di qui in basso di un regno prospero e senza rivali,

e nemmeno il potere del cielo»

Bhagavad-Gîtâ, II, 7 e 8

La scrittura del sanscrito è chiamata Devanagari. Il Sanscrito è una lingua indo- europea, che si legge da sinistra a destra.

E la risposta di Krishna arriva come portata da un alito sovrumano… disumanizzato:

« I saggi non piangono né i morti né i vivi.

Mai sono stato senza essere, né te né questi principi degli uomini,

e mai verrà il tempo dove non saremo più.

Il non- essere non può venire all’essere e l’essere non può cessare d’essere.

Quelli che hanno visto il principio delle cose

Conoscono i limiti dell’essere e del non- essere.

Indistruttibile, sappilo, è ciò per cui questo universo si dispiega,

Ciò che è immutabile non è nel potere di nessuno distruggerlo,

I corpi periscono, lo sappiamo, ma l’anima che
Vi si incarna è eterna, imperitura ed eterna, senza fine.

Così, Arjuna, combatti! »

Bhagavad-Gîtâ II. 11 et 12 — 16 â 18.

Queste parole sono sublimi come gli ultimi Lieder di Strauss, sono impregnate di una forza spirituale che non deve niente alla retorica di un sermone benpensante. Bisogna combattere. Bisogna uccidere E nessuno slogan per attutire la propria paura e confondere la coscienza. Nessun fanatismo prima dell’assalto. Nessuna droga psicologica. Ma la sola visione della realtà .

Sicuro, la guerra è una situazione intollerabile, ma il fatto è lì, irrefutabile.. Si ha un bel sapere che nei due campi che vanno a prendersi alla gola, il combattimento è rifiutato, i morti sono già pianti. Ci si affronta e ci si uccide.

Allora, che fare? Che fare in questo dubbio scuro come la tenebra, dubbio che è il dilemma di tutti i momenti umani di incertezza e di scelta?
La risposta è: agisci. Ma agisci senza preoccuparti dei frutti dell’azione. Non avere nessun desiderio per i risultati dei tuoi atti. Non si tratta di un consiglio morale di disinteresse. Avere una condotta virtuosa non avrebbe senso. E vane sono le tempeste in un cranio…

L’essere umano è il luogo di passaggio dell’atto. E lasciare nascere l’atto, vivere e scomparire non implica più spirito cavalleresco che una crudele indifferenza. Per la buona ragione che ciò che avviene e ciò che ne deriva ci sfugge. L’ossessione del relativo può annullare il migliore degli uomini.
Non è né augurabile, né utile.

Ma, e questo è capitale, questa attitudine interiore non può mai  essere il risultato di un atto di fede o di una comprensione intellettuale.

La logica aiuta e la fede salva, certo. Sono nutrimenti decisivi fino a che la fame non si è calmata

Poi? Eh! La logica la logica in briciole e la fede in lacrime, sarebbe meglio?

Resta comunque uno spazio immenso, resta l’ essere, senza nessuna ribellione intempestiva  contro ciò che ci è dato compiere in questo mondo. Resta essere, integrato totalmente in se stesso. Questo è il senso più alto della parola  Yoga. E questa è un’altra storia di cui non esistono le parole. Si può invitare il silenzio. Il silenzio non è che una parola in più. Si potrebbe convocare l’esperienza. L’esperienza non è che un’immagine

Questo è il vertiginoso paradosso di ciò che E’. E per concludere tra un istante solleciteremo la santa letteratura! Non può essere preso che dal seme  trasformato e penetrato nell’ineffabile, succosa e immortale realtà.

« Ho attraversato innumerevoli esistenze, e tu pure, Arjuna ,

Le conosco tutte, tu no, le ignori.

Esisto dall’eternità perché sono immutabile, sono il Signore dei viventi,

E tuttavia m’incarno nell’universo visibile,

nasco per il mio potere.

Ogni volta che cancello l’ordine cosmico e che

sorge il caos, mi faccio io stesso creatura.

Per la salvezza del giusto e la perdita dell’ingiusto, per ristabilire l’ordine cosmico.

Io nasco di età in età,

La mia nascita e le mie opere sono divine, chi sa

Veramente questo, muore per non più rinascere, mi raggiunge, Arjuna.