Come comportarsi in un Ashram di Swami Vityatmananda

Rivista Védanta n. 133 – Centre Védantique Ramakrishna

(Traduzione a cura della dr.ssa Luciana Scalabrini)

All’inizio del lavoro vedantico in Inghilterra e in America, gli Swami facevano attenzione a non insistere con gli occidentali a imporre i costumi sociali e religiosi dell’India. Non avevano l’intenzione di induizzare nessuno. Fecero pochi sforzi per introdurre le pratiche religiose osservate in India dai devoti e fecero in modo che i santuari e gli altari dei Centri fossero in stanze private lontane da quelle aperte al pubblico, che avrebbe mal compreso quello che vi succedeva. Non fu che nel 1936, quando fu terminato il tempio vedantico a Hollywood che il santuario fu designato a far parte dell’auditorium, paragonabile agli altari delle chiese cristiane, ma dapprima le porte di quei santuari furono chiuse durante i servizi pubblici. Ancora 40 anni fa, la cappella di Gretz era chiusa a tutti quelli che non erano dei veri addetti, perché potevano essere impressionati dalle caratteristiche indù.

Ora le cose sono molto cambiate, si vedono spesso  orientali in occidente e non impressiona vederli portare il loro abbigliamento tradizionale e seguire i loro costumi. Probabilmente anche perché molti occidentali sono andati in oriente, hanno visto i loro costumi e vi si sono adattati. L’esplosione hippy e il movimento dei giovani degli anni 60 – inizio 70 confermano quella tendenza. Quei giovani decisero di adottare i valori morali di bontà, realtà e semplicità e lo proclamavano portando vestiti qualsiasi, avendo un comportamento naturale, in sfida a quello che consideravano l’ipocrisia delle generazioni precedenti, il cui vessillo  sembrava loro nascondere la presunzione e l’ingiustizia. Gli hippy trovavano  ispirazione in quel genere di vita che avevano incontrato nel modo di comportarsi in India.

Per l’adepto del Vedanta in occidente è entrato in vigore un codice di comportamento che tiene conto dell’occidente, ma è conforme allo spirito delle idee religiose indù, un codice di etichetta che è evoluta in modo naturale, che deriva dai viaggi, l’interesse verso lo yoga, la presenza di Swami in occidente e una ricerca progressiva degli occidentali verso un comportamento religioso più impegnato nella vita.

Quelle che chiamiamo discipline  d’ashram, che guidano i comportamenti nei centri vedantici, è il risultato di iniziative di devoti più che un regolamento degli Swami della Mission Ramakrishna.

La disciplina dell’ashram è un amalgama di abitudini orientali e occidentali. Le persone che vengono nei centri e ashram vedantici si domandano spesso come e perché questo funziona. Da cui l’articolo presente.

Il pensiero hindù parte dall’idea che il mondo visibile non è che una massa di energie, o di qualità chiamate guna. Ci sono tre guna di cui si potrebbe dire che sono il bianco, il rosso e il nero, che formano l’interiorizzazione o virtù, la passione o attività e l’ignoranza o inerzia. Il mondo a ogni momento è la somma totale di tutti i guna nelle loro manifestazioni e combinazioni diverse. Nei santi il guna della non passione o sattva predomina. Nell’ambizioso è l’attività o rajas che predomina. Il pigro, quello che prende tempo, possiede a un alto grado la qualità nera, tamas.

I guna sono contagiosi; così una persona letargica, in presenza di una persona attiva, può sentirsi spinto verso lo sforzo o lo spirito d’iniziativa. L’individuo agitato, in presenza della tranquillità, può sentirsi rilassato. Questo apre all’opposto, mentre, per esempio, la felicità che sentiamo si trova diminuita sotto l’atmosfera che emana da un individuo depresso.

Il pensiero hindù e la struttura tradizionale e sociale hindù fu basata sulla credenza che gli individui si pongono nella vita secondo il guna che predomina in essi e devono agire seguendo i comportamenti di quella situazione, cioè il dharma individuale.

Dio, si dice, è al di là dei guna e chiunque realizza l’unione con Dio si dice che ha trasceso i guna e non può essere dominato da essi. Essendo lo scopo della vita trascendere i guna, nel corso delle vite successive nelle quali lo sforzo è di elevarsi più in alto, l’Hindù ha provato a   sottomettersi all’influenza più elevata possibile dei guna e a evitare le influenze che ritardano il suo progresso. Questo ha guidato il suo comportamento e determinato i costumi che ha seguito. Il suo scopo è stato quello di elevarsi sempre più in alto nella gerarchia dei guna, fino a passare interamente al di là di quella gerarchia e giungere a immergersi in Dio.

Così Dio è considerato totalmente adorabile, totalmente degno di un culto. Benché essenzialmente senza forma, per il bene dell’umanità, Dio assume diverse forme e aspetti. Le incarnazioni e le immagini sono i ritratti  dei suoi diversi aspetti. Come divinità è nei templi e nei santuari. Desiderando l’uomo essere protetto da Dio, e desiderando amarlo e rassomigliargli, viene a trovarlo nel suo santuario, mostrandogli rispetto, provando a fare quello che a Lui piace. Con quelle intenzioni l’uomo può purificarsi sufficientemente e stabilire contatti con Dio. L’uomo può anche organizzare nella sua casa una succursale del tempio, non con le sue mani, ma col suo cuore…

Dunque, i comportamenti più importanti da seguire in un ashram concernono l’attitudine da avere in un tempio o santuario. La pulizia è il primo dovere perché essa contiene un forte elemento di sattva. E questo attiene non solo il corpo o i vestiti, ma la purezza mentale. Prima di entrare si lasciano le scarpe, per non portare la sporcizia in un luogo dove le persone sono sedute per terra; d’altra parte piegare le gambe sotto di sé per meditare è scomodo se si portano le scarpe. C’è anche una ragione più sottile: togliersi le scarpe davanti ad una divinità è un gesto di umiltà interiore e di rispetto.

Per spezzare di più ogni legame con la sua posizione secolare e le preoccupazioni del mondo, il devoto può sentire più conveniente indossare un abito riservato solo alla cappella e dove sia a suo agio a meditare, o di indossare un chadar. Un chadar è una specie di uniforme che toglie le differenze individuali che distraggono e attesta una solidarietà nello sforzo. Questo suggerisce anche la sensazione di essere separato dagli altri, solo con Dio.

E’ normale entrando nella casa del suo Ideale salutarlo con un gesto di rispetto, una prosternazione chiamata pranam o di giungere le mani in un gesto chiamato namaskar.

E’ necessario dire che davanti al suo Ideale si deve osservare il silenzio ed evitare i movimenti disordinati. La parola asana significa postura ed anche il cuscino su cui ci si siede. Le gambe e le mani giunte, il tronco e la testa dritti sono un atteggiamento di ricettività. Stendere le gambe davanti alla divinità o esporre le membra o afflosciarsi sono considerati mancanza di rispetto.

E’ normale, quando si visita uno che si adora, portargli un regalo. Il più grande regalo, quello che il Signore ama di più, è il sentimento del cuore e nella Gita è detto che se quel sentimento esiste, una piccola foglia simbolica o un’offerta d’acqua saranno più che soddisfacenti. Certo, i devoti offrono anche denaro, ma l’offerta abituale consiste in fiori e cibo. I fiori offerti nel rituale chiamato puja dall’adoratore chiamato pujari, sono restituiti ai devoti dopo il rito, se lo desiderano, e li si conservano come delle sante reliquie, come i cattolici conservano le palme benedette. Quando i fiori sono appassiti, non devono essere gettati nella pattumiera; si devono rendere alla terra, in un luogo dove non siano pestati dai piedi. Ovviamente i fiori offerti devono essere puliti e senza macchie e che non siano già stati offerti a qualcun altro; abitualmente sono lavati e a volte sono cosparsi di profumo e di pasta di sandalo.

Il cibo offerto ha le stesse regole. Il frutto deve essere fresco e naturale. Benvenuto lo zucchero candito; può essere offerto pure un cibo cotto, ma deve provenire da una fonte più pura possibile. In India i bramani  sono spesso cuochi, perché essendo bramani si pensa abbiano qualità sattviche.

Ogni devoto, preparando cibo da offrire deve essere mentalmente e fisicamente pulito durante la preparazione, non deve naturalmente assaggiare il cibo né durante la cottura né dopo. La lingua è considerata portatrice di impurità, o dovrebbe essere in grado di trasmettere qualità. Dare le vostre qualità agli altri, trasmettendo qualcosa che è stato nella vostra bocca o ha toccato la vostra bocca, costituisce la peggiore delle cattive maniere.

Ne parleremo quando parleremo delle regole a tavola.

Inoltre il Signore, dovendo essere il primo a odorare un fiore, deve essere il primo a gustare il cibo.

Come i fiori offerti nella puja, il cibo è offerto ai devoti dopo il culto. Essendo stato accettato da Dio, è molto sattvico. La parola che lo designa è prasad, che significa benedetto per l’accettazione di Dio e imbevuto della sua qualità o energia. Un errore che i devoti fanno spesso è di designare il cibo che portano per essere offerto come  “un apporto di prasad“. Fino a che non è offerto, è solo un dono di cibo; non è che dopo che si trasforma in prasad.

L’idea della puja fatta in un ashram di Ramakrishna in termini molto semplici è questa: il Signore è l’invitato d’onore, un augusto personaggio che ci fa il favore di farci visita. L’adoratore è l’ospite, ansioso di fare tutto il possibile per piacere al suo invitato, idea che non differisce dal tema della messa cattolica, che è un rinnovare l’atto d’amore dell’ultima cena che Cristo ha condiviso con i suoi discepoli prima della crocifissione.

Noi ci ricordiamo della grande importanza dell’ospitalità nei paesi orientali. La puja consiste nell’offerta di cose gradevoli, fiori, cibo, incenso, musica, profumi, luce, e anche acqua per bagnarsi e bere.. L’acqua del Gange è offerta se possibile. Una volta, a Hollywood, il mio guru, Swami Prabhavananda, mi domandò di accompagnarlo da un discepolo che stava morendo.. “Prendete un po’ d’acqua del Gange da portargli”. Andai nella mia camera, vuotai una bottiglia, la lavai, l’asciugai con cura e la riempii di un po’ d’acqua del Gange, presa da un grande recipiente custodito nel santuario. Mentre andavamo verso la casa del morente, dissi a Swami che avevo pulito il recipiente, Lui si mise a ridere. “Non sapete, disse, che l’acqua del Gange purifica tutto ciò che tocca?”.

Questo mostra un altro principio del pensiero hindù. La purezza è di due specie, o piuttosto, c’è una purezza e una pulizia. La pulizia come igiene è molto importante in occidente ed è spesso confusa con la purezza, mentre la purezza hindù è non fisica perché implica la presenza di qualità sattviche. Così un ristorante con tovaglie immacolate e una brillante argenteria, benché pulita dal punto di vista igienico, non può portare nulla di spirituale in un pranzo in seguito all’attitudine mentale e fisica dei cuochi e camerieri, mentre un pasto molto semplice, se si è pensato a Dio durante la preparazione, può avere un effetto più sattvico, perché il cibo è puro.

I gesti che il pujari fa durante la cerimonia sono chiamati mudra. Si dice che aiutano la concentrazione, che sono i simboli fisici di idee spirituali e liberano energie spirituali che contribuiscono all’efficacia del rito. Le prole pronunciate in silenzio sono chiamate mantra, che sono invocazioni, preghiere, citazioni delle scritture, o formule con il nome divino.

Bisogna notare che una delle idee interessanti della puja, è che, poiché il Signore ha già tutto, è presuntuoso da parte del devoto offrirgli qualsiasi cosa. Così la prima cosa che fa il pujari è assumere un atteggiamento divino che mantiene per tutta la cerimonia perché in realtà il rituale consiste in ciò che Dio offre a Dio ciò che già gli appartiene.

All’arati, l’ufficio della sera, si offrono a Dio gli elementi dell’universo: terra, aria, acqua, fuoco e etere. Cos’è lo spazio, il tempo, la casualità, se non una celebrazione cosmica in cui Dio gioisce di ciò che è già suo. Ma si dice anche che, benché Lui sia il possessore di tutto e non abbia bisogno di niente, Dio accetti per grazia ciò che l’adoratore gli offre, perché, accettando tali atti d’amore, Dio avvicina gli uomini a sé.

L’uomo ha cinque sensi e, poiché la sua comprensione non va più lontano, suppone che anche Dio abbia cinque sensi. Vuole piacergli con il gusto, offrendogli cibo e scambia per spirituale il suo gusto, condividendo con Dio ciò che Dio ha mangiato.

Nello stesso modo, Gli si offre incenso e profumo avendo come risultato un riflesso condizionato che si produce nell’uomo, che fa si che tutto quello che si riferisce al suo odorato lo fa pensare a Dio.

Lo stesso con l’udito Abbiamo già parlato dei mantra e si pensa che pronunciarli provochi delle vibrazioni spirituali. Tutto un repertorio di canti si è formato, gradevole alle orecchie di Dio e dei suoi adoratori. I canti (bhajan) alla fine della meditazione del mattino e all’arati, sono stampati in un opuscolo che può essere richiesto al centro.

La serie di jai ripetuti alla fine dei canti può essere interpretata come grida di vittoria indirizzati a diversi eroi vedantici. Jai significa “saluto a” o “vittoria a”. La lista dei jai e il loro significato si trova nel libro di canti.

Il quarto senso è quello di toccare. Ci appelliamo al senso del tatto di Dio nel conforto che gli procuriamo, i vestiti di prima qualità, un tempio gradevole, decorazioni di buon gusto. In India, nei giorni caldi si porta Dio a passeggiare in battello o a volte verso padiglioni al centro della parte riservata del tempio. Come devoti, desideriamo toccare l’oggetto della nostra venerazione. Il toccare dà in cambio un’energia di vibrazione. E’ per questo che in India le persone non si danno la mano, ma si salutano giungendo le mani (namaste). Toccare i piedi di un’immagine o di una persona adorata come un genitore o un guru, è un gesto di rispetto  e il desiderio di assorbire l’energia spirituale o le qualità d’immagine della persona. I piedi sono considerati convettori efficaci della natura essenziale. Lo scambio di vibrazioni si apre nei due sensi. Un santo può trovare doloroso lasciarsi toccare troppo i piedi da gente piena di “peccati”, perché quel contatto prende troppo da lui. Toccare i piedi esprime anche l’umiltà; è una benedizione raccogliere la polvere dei piedi di una persona onorata e portare quella polvere alla propria fronte.

La vista, il quinto senso, è considerata un contatto in cui influenze o energie sono trasmesse. La parola utilizzata in quel processo è darshan. La divinità o il santo dà il suo darshan a coloro che vengono in sua presenza in una attitudine di adorazione, per gioire della sua vista. Ci appelliamo al senso della vista di Dio sforzandoci di stare in una cappella pulita e in ordine, decorata in un bel modo.

Per quanto concerne la consuetudine di ricordarsi costantemente della preminenza del Signore, i devoti prendono l’abitudine di pensare prima di tutto a lui. Prima di fare qualsiasi cosa, si inchinano a lui alzandosi il mattino. Lo salutano arrivando all’ashram, andando alla cappella, salutando la sua immagine, rendendo omaggio al suo rappresentante, lo Swami in carica. Ogni regalo che ricevono o quello che comprano per se stessi, glielo offrono prima di utilizzarlo. Il cibo e le bevande sono mentalmente offerte prima di essere consumate.

Lasciando la casa o l’ashram, ci si congeda dal Signore e ci si affida alla sua custodia prima di dormire. Partendo per un viaggio, si domanda l’aiuto alla Madre Divina, ripetendo “Durga, Durga” alla partenza.

Gli ashram vedantici venerano molti santi ed eroi spirituali onorando la loro festa con più o meno importanza; Natale, il giorno di Kalpataru (1 gennaio), l’anniversario di Ramakrishna, Pasqua, la nascita di Krishna sono celebrati pubblicamente a Gretz. Ci sono altri giorni festivi chiamati tithis puja, o guru purnima che sono celebrati in privato (ma se lo si desidera si può assistervi). Le date, che cambiano di anno in anno secondo la posizione della luna, sono fornite ai fedeli. Comprendono le date di anniversari dei discepoli importanti di Ramakrishna, la Durga Puja, la Kali Puja, la Shivaratri, e le date di Ram Nam, mentre la storia della vita di Rama e le sue gesta sono celebrate in musica.

Dopo il Signore viene il guru. Alla Mission Ramakrishna, il tipico guru è un sannyasin hindù appartenente all’ordine e designato dalla casa madre a Belur Math. Ci sono sannyasin occidentali nell’ordine di Ramakrishna, ma fino ad ora solo due si sono trovati alla testa di un centro e nessuno è stato autorizzato a essere un guru.

Un guru è considerato un rappresentante speciale di Dio, capace di condurre altri a Dio. E’ versato nelle scritture hindù e i rituali ed è una persona di certe abitudini e saggezza pratica. Benché si dice spesso che il guru sia Dio, nessun guru ragionevole prende questo alla lettera. Manifesta qualità divine, fa della sua vita un esempio e passa la maggior parte del tempo ad aiutare gli altri senza voler essere ricompensato. La riserva di spiritualità che ha acquisito negli anni di rinuncia e di maturazione, le può impartire ai discepoli (chela) con il rituale dell’iniziazione (diksha) nel quale è data una formula o mantra, contenente il nome divino. Si trovano tutti quei mantra nelle scritture e sono appropriati all’una o all’altra delle divinità di scelta o ishtam. Il japa e la ripetizione silenziosa del mantra, utilizzando spesso un rosario di 108 grani, chiamato mala. Il mala deve essere mantenuto pulito in un sacchetto speciale o una borsa e durante il suo utilizzo deve rimanere coperto. Ogni mostra esteriore di una pietà eccessiva è considerata di cattivo gusto.

Vi si può dire che ciascuno può scoprire un mantra conveniente in un libro santo hindù e usarlo senza l’intervento di un guru. Certo, ci sono ora pubblicazioni popolari che contengono l’indicazione di una pronuncia corretta della maggioranza dei mantra importanti. Ma nel pensiero hindù, l’iniziazione di un guru aggiunge qualcosa di molto importante, la trasmissione di un potere spirituale con l’udito, che aumenta le energie latenti del chela.

Swami Vidyatmananda

Come comportarsi in un Ashram    seconda parte

Se il chela desidera considerare il guru come Dio, questo può aiutarlo. Come amico, confidente, esempio, confessore, il guru è di grande aiuto. Ma solo nella misura in cui utilizza il tangibile per condurlo verso l’intangibile. Una eccessiva identificazione con il guru fisico può condurlo al fanatismo, alla dipendenza, alla gelosia, alla formazione di gruppi o sette. Ogni guru che si permette di ricevere un culto è un danno per il suo benessere e quello dei suoi chela. Questa demarcazione è molto sottile, come permettere l’identificazione che aiuta il discepolo senza permettere la glorificazione che può nuocere a lui e alla organizzazione. Gli Swami dell’ordine di Ramakrishna sono consci di questo problema e le autorità di Belur Math sorvegliano sempre le attività degli swami autorizzati a dare l’iniziazione.

Naturalmente il chela deve essere rispettoso, umile, ubbidiente, volonteroso con il suo guru, perché è un apprendista e quelle qualità prono la sua mente verso l’arte di apprendere.

Il comportamento dei devoti implica l’accettazione di una gerarchia; è un’idea dell’estensione del rispetto per il guru. Il fondatore e capo del movimento, considerato sempre vivo, è Ramakrishna che è spesso chiamato Thakur (Signore), il Maestro o Guru Maharaj. Però non in senso esclusivo. Ramakrishna è visto come l’incarnazione ideale del pensiero della religione universale e della riconciliazione. I devoti possono prenderlo come ideale di scelta (istham) se lo desiderano, ma non è necessario. Ogni concetto di personaggio spirituale può essere scelto come soggetto di adorazione e in quel caso Ramakrishna può essere considerato come guru che facilita la realizzazione di quell’aspetto particolare dell’Unico. Sarada Devi è riverita come rappresentante del concetto della Madre (Shakti) o principio attivo. Swami Vivekananda è riverito come colui che ha reso popolare la rivelazione di Ramakrishna, la dottrina insegnata dai sannyasin del movimento.

Si può dire che il Vedanta dà la base razionale di comprensione in un certo limite di Dio e che Ramakrishna ha rivificato i metodi pratici della realizzazione del Divino. Vivekananda combinò quegli elementi in modo attraente e diede agli uomini un corso pratico da seguire, adatto alle differenze individuali.

E’ quello che si intende per Vedanta di Ramakrishna. L’effigie dell’ordine rappresenta il Vedanta in forma grafica. Mostra un loto su di un lago, illuminato dal sole levante e circondato da un cobra. Sulle onde un cigno bianco. Sopra una frase in sanscrito scritta da Vivekananda: “Che ci illumini.” E’ un ideogramma potente per l’equilibrio armonioso e lo sviluppo dell’aspirante religioso. L’acqua simboleggia il karma yoga, per un progresso spirituale per un lavoro disinteressato, il loto il bakti yoga per lo sviluppo dell’amore divino, il sole levante l’jnana yoga, la pratica della discriminazione e della conoscenza. Tutti sono legati insieme dal raja yoga, la concentrazione e la meditazione che risveglia il serpente della spiritualità; il cigno al centro simboleggia l’aspirante potenziale all’Anima Suprema.  Supportato da quei mezzi, l’uomo ideale deve emergere, sereno nella felicità, perfezionato nella bellezza del proprio Sé. La frase dice lo scopo ultimo di Vivekananda che tutti  i devoti devono perseguire e al quale conduce il lavoro, il culto, gli sforzi e le lotte: “possa illuminarci tutti”.

Il rappresentante di Ramakrishna sulla terra è il Presidente dell’Ordine di Ramakrishna, eletto da un comitato di anziani swami, a loro volta democraticamente eletti dai sannyasin dell’Ordine. In India solo il Presidente e il Vicepresidente hanno il potere di iniziare. C’è un Segretario generale e diversi altri funzionari. Ma la gerarchia opera per rango di anzianità d’anzianità nell’Ordine cioè seguendo la data di entrata nell’Ordine. Così è possibile che un funzionario sia da rispettare come un superiore, uno swami non funzionario che sia entrato nell’Ordine prima di lui.

Un parola sul rispetto. Al momento la giovinezza è glorificata  per l’aspetto fisico e il suo fascino. Ma sono qualità che non si acquistano e sono un dono della natura ignorante. I devoti che vogliono progredire lottano contro la natura e si rendono conto, dopo un certo tempo,  come sia lenta e difficile la purificazione. Vedono che è necessario un lungo lavoro per svilupparla e cominciano a rispettare quelli che la possiedono. E’ caratteristico che le civilizzazioni orientali abbiano valorizzato gli anziani e i saggi. Il rispetto della grandezza spirituale è inculcato nel devoto vedantico e succede mano a mano che l’ego diminuisce.

Uno swami è un essere che ha fatto voto di rinuncia, il sannyas. Questo è dato una volta all’anno a Belur Man, abitualmente il giorno dell’anniversario di Thakur. I candidati seguono nove o dieci anni di noviziato. Il sannyas permette a un essere di essere chiamato swami o sannyasin e di portare l’abito di color ocra. Nell’organizzazione per le donne, Sri Sarada Math, il termine equivalente è pravajika, sannyasini. Si raggiunge il sannyas dopo essere stati brahmachari. Questo stato è conferito con una cerimonia ora permessa in occidente (America) come a Belur Math. Questo dopo cinque o sei anni di noviziato. Un brahmachari veste di bianco.

La parola monaco è riservata a coloro che hanno preso il sannyas e quello di brahmachari a tutti i novizi che abbiano preso o no il brahmacharya formale. La parola sadhu è un termine generale applicato spesso ai monaci nel loro insieme. Ci si può indirizzare a un sadhu in quanto Maharaj. Un Sadhak è un aspirante e i discepoli spirituali che seguono un sadhak si chiamano sadhana.

L’ordine di Ramakrishna è un’organizzazione di uomini. Nei centri vi è una mescolanza dei due sessi. Questo si deve svolgere correttamente. La modestia nel comportamento e nel vestire sono importanti.

Un ashram è mantenuto come un ritiro dal mondo, un luogo del mondo non mondano, per quelli che desiderano allontanarsi dal samsara. Dunque è importante che quelli che vengono aggiustino il loro comportamento in modo da non portare il mondo con loro.

Gli adepti devono aderire alle pratiche che conducono alla liberazione. Il parco non deve essere considerato come un camping o una spiaggia. I rapporti con le persone devono farsi su una base relativamente formale. Gli incontri si fanno nella parte pubblica della casa, non nel parco o nelle camere. E’ sconsigliato portare animali, perché portano un’atmosfera frivola e distratta e possono essere fonte di difficoltà, variando tra gli individui i sentimenti verso di loro. Tra i fedeli deve esistere purezza nei rapporti, accettazione delle debolezze degli altri, evitare gli scandali, interiorizzare la parola e l’azione, una meditazione regolare, nessuna richiesta da fare.

Una delle abitudini più dannose è chiacchierare sull’elevazione spirituale di un altro o rivelare la vostra. Chi non ha queste qualità disturba la comunità e ritarda la propria realizzazione.

Mangiare è una parte importante nella vita indù ed è  significativa nella vita dell’ashram. La preghiera che precede il pasto, il ventiquattreesimo versetto del quarto capitolo della Bhagavad Gita, dice che il nutrirsi è un atto spirituale. Nei centri si è creata un’etichetta che incorpora idee orientali e occidentali.

L’etichetta del nutrimento è basata su idee già ricordate: il contatto con la lingua è sporco e nessuno deve portare le proprie vibrazioni agli altri; il cibo trasmette molto le vibrazioni.

In India i commensali si siedono e sono serviti da qualcuno che mangerà più tardi. Non ci si passano i piatti di un convitato uno con l’altro e non ci si serve da soli. Le persone mangiano con le dita e non avendo tovaglioli, si leccano le dita spesso(  ben inteso, le mani sono lavate). In occidente ci si passano i piatti e ciascuno si serve. Così la situazione è molto diversa e tutti i contatti tra mani e bocca o leccarsi le dita non è auspicabile. Ridere o scherzare, parlare forte a tavola sono da evitare, per il rischio di mandare materia estranea nel piatto del vicino o nei piatti di servizio.

A tavola, servendosi si farà cadere il cibo nel piatto, evitando di toccare il piatto con il tovagliolo. Non si userà il cucchiaio o la forchetta che si è messa in bocca per prendere nel proprio piatto il cibo che viene passato.

L’abitudine occidentale di appoggiarsi o sedersi sulle tavole tra i pasti non è accettata, perché non è delicato posare la parte inferiore del corpo sulla tavola dove si prendono i pasti.

Ci si domanda a volte: il Movimento Ramakrishna è una setta e come gli swami che dirigono il centro sono diversi dai personaggi che hanno una cattiva reputazione?

Questo sembra implicare che una setta è qualcosa di cattivo. Ma non necessariamente. Il dizionario definisce una setta come un insieme di persone che formano un gruppo distinto, unito da credenze e da interessi comuni. E la parola culto usata a volte per designare una devozione verso una persona o un ideale può anche riferirsi a un sistema o una comunità culturale religiosa i cui motivi sono degni. Non è denigrare dire che la Cristianità ha iniziato come setta e, quando si separò dal Cattolicesimo, il Movimento Luterano fu considerato una setta. Nel medioevo l’immensa devozione alla Madre di Cristo fu designato come culto della Vergine Maria.

Ogni organizzazione umana può fare una cattiva strada cioè provocare una regressione tra gli aderenti invece di elevarli. E quando questo si produce in una setta, o un capo stabilisce un culto per il suo interesse o la sua glorificazione, allora la parola setta o culto è utilizzato in un senso denigratorio che è appropriato.

Ma sette o capi cattivi possono a volte fare del bene ai loro addetti, per esempio quando giovani drogati o delinquenti sono aiutati a purificarsi e a trovare un ideale nella vita.

L’obiettivo del Vedanta è la liberazione spirituale dei suoi aderenti. L’organizzazione non è che un tutore e lo swami in carica il giardiniere utile quando la pianta è piccola. Swami Vivekananda diceva: “E’ bene nascere in una chiesa, ma non restarci”. Il programma del centro vedantico parla di dogmi e templi come dettagli secondari, essendo il nostro obiettivo manifestare il divino in noi.

Il Vedanta di Ramakrishna è dunque una nuova chiesa? Si e no. Al di fuori dell’iniziazione, gli swami non fanno alcun altro rito come battezzare, fare matrimoni, estrema unzione o sepoltura. Non considerano l’Ordine o essi stessi come addetti alla salvezza. E certamente non è un’organizzazione con un potere temporale, i membri monastici non si occupano di politica in nessun modo. Ciascuno è libero di entrare o lasciare il centro in ogni momento. Ma il centro vedantico può essere considerato come una chiesa, nel senso che fornisce un luogo dove le persone possono radunarsi per operare per la loro salvezza in presenza di un capo e altre persone alla stessa ricerca.

A Gretz e in certi altri centri ci sono facilitazioni: i capi famiglia possono vivere in stretto contatto coi monaci in ritiri spirituali, che assomigliano alle comunità Esseniane del tempo di Gesù e alle comunità pure dell’inizio del Cristianesimo. Questo implica il suggerimento di Ramakrishna, che i capi famiglia dovrebbero qualche volta assentarsi dagli obblighi familiari per passare qualche giorno in santa compagnia.

I  discepoli capi famiglia sono chiamati sadhaka laici. Hanno un posto onorevole nel movimento. Non figurano nella gerarchia, ma la sostengono e ne ricevono un profitto spirituale. I centri, i templi e gli ashram sono il risultato fisico della cooperazione tra monaci e laici. Il ministero spirituale e la direzione quotidiana sono fatti per gli swami in carica attraverso gli aiuti monastici e quelli dei laici.

Gli addetti laici hanno un certo lavoro da fare attorno al tempio. I monaci  hanno la loro vita quotidiana assicurata, servendo gli addetti laici, e i fedeli acquistano un’affiliazione religiosa aiutando i monaci con il loro dono e il loro lavoro. Perciò è uno scambio equo nel quale non ci sono né perdenti né avvantaggiati, né superiori né inferiori. Gli swami a volte fanno un lavoro secolare a dimostrazione di questo.

Formulando le regole monastiche che vigono da centinaia di anni, san Benedetto parla dell’equipaggiamento quotidiano, di utensili e forniture, preziosi come i vasi santi esposti sull’altare, che si utilizzano e di cui bisogna avere cura con uguale rispetto. Gli abitanti degli Ashram seguono questa regola e l’estendono anche agli edifici e alle proprietà.

Sant’Agostino visualizzò la Chiesa come una città terrestre di Dio, in cui i Cristiani vivevano insieme in armonia, preparando  il loro trasferimento in cielo. Noi abbiamo un’idea simile nel centro. E’ una comunità di gente virtuosa.  Ramakrishna diceva che i suoi devoti formavano una nuova casta o una casta a parte, cioè che i membri della Mission Ramakrishna erano una fraternità per il fatto della loro adesione al proprio ideale. Il nostro movimento non vive nella speranza di giungere al cielo nel senso cristiano della parola, ma per la trasformazione di sé che porta alla perfezione in questa stessa vita. Il Vedanta insegna come realizzarlo; il centro dovrebbe essere considerato un ambiente spirituale dove tutto deve condurre a quel fine.

La vita in un Ashram è un’esperienza nell’arte di sviluppare la via e la chiarezza. Benché possano essere codificati altri costumi, come ho cercato di chiarire,  il reale successo per vivere in un ashram si ottiene naturalmente con l’interiorizzazione. Il carattere si affina, ci si rende conto che le regole che portano al successo nel mondo non servono in un ashram. E’ una specie di comunità del tutto differente con diversi obbiettivi e diversi modi di perseguirli. In generale né il guru né nessun altro ve lo dirà. Vi occorrerà impararlo, sentirlo con l’intuito, facendo semplicemente delle sciocchezze, sviluppando la modestia, il silenzio, il rispetto. Riassumendo, sattva, più sattva.