Io è una porta di Philp Renard – quinta parte

Atmananda (Krishna Menon)

 

3ème Millénarie n. 78 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini

 

Nei brani precedenti di “Io è una porta” si portava l’attenzione sul sorprendente fenomeno dell’utilizzo della parola “io”, che può riferirsi a un’entità limitata e anche a Quello. I due precedenti articoli di Ramana Maharshi e Nisargadatta maharaj parlavano di questo.

Nel terzetto formato dai tre grandi insegnanti autentici dell’Advaita nel ventesimo secolo, cioè Ramana Maharshi, Nisargadatta Maharaj e Krishna Menon, scopriremo qui quest’ultimo.

Krishna Menon è nato nel 1883 a Peringara vicino a Tiruvalla nello stato del Travancore (ora parte dello stato del Kerala). Dopo gli studi di diritto, divenne avvocato ispettore del governo e sovrintendente di polizia del distretto. Disse una volta che, all’inizio della sua vita, pregò molto per incontrare il suo Guru, un Insegnante nel senso più profondo del termine. Un giorno del 1919 incontrò Swami Yogananda, che viveva  a Calcutta. Il loro incontro non durò che una sola notte. Krishna Menon fu particolarmente toccato dall’immensa umiltà di quell’insegnante. “Questo paralizzò il mio ego” disse più tardi. In seguito a questo incontro incominciò una sadhana che includeva bhakti, raja-yoga e jnana-yoga.

Più tardi, divenuto lui stesso insegnante, non trasmise che la pratica di jnana-yoga, criticando persino le pratiche di bhakti e di raja-yoga.

Realizzò la sua vera natura nel 1923, prese il nome di Atmananda e cominciò a insegnare. Parallelamente, proseguì la sua attività dentro al dipartimento della polizia fino al 1939. Disse una volta, più tardi, che le professioni di poliziotto e di militare formano un quadro ideale per una sadhana spirituale, perché offrono il massimo di ostacoli e di tentazioni.

Morì a Trivandrun, capitale del Kerala, nel 1959.

L’approccio di Atmananda fu conosciuta in Occidente con il libro di John Levy, La natura degli uomini secondo il Vedanta.  Lui stesso era un discepolo inglese di Atmananda, che stava stabilmente con lui. Levy riformulò l’approccio particolare di Atmananda in uno stile più occidentale conservando però il modo originale e caratteristico di Atmananda.

Io sono stato portato a conoscere Atmananda da un discepolo di Alexander Smit, un olandese discepolo di Walter Keers, che lo era di Atmananda. Alexander mi regalò due piccole opere di Atmananda: Atma-Darshan e Atma-Nirviti. Questi libri hanno un breve riassunto dell’insegnamento di Atmananda. Le scrisse nella sua lingua natale, il Malayalam, e le tradusse lui stesso in inglese.

Alexander le studiò minuziosamente per due anni e sono riconoscente per il privilegio di aver assistito a quelle riunioni.

Ho così avuto la possibilità di familiarizzare con l’approccio specifico di Atmananda.

In cosa consiste la sua specificità? Nell’uso linguistico, particolarmente sul piano della logica, o logica “soggettiva”, nel suo modo di ricondurre ogni cosa alla sua natura ultima, e in particolare alla sua insistenza categorica su quello che chiama il “Principio-Io”. Questo “Principio-Io” era per lui sinonimo di Realtà Ultima, di Assoluto. Niente lo precede, è ciò che realmente significa la parola “Io”. Diceva così: “La Pura Coscienza e la pace profonda sono la vostra vera natura. Avendo compreso questo in modo giusto, potete abbandonare le parole “Coscienza” e “Gioia” per utilizzare “Io” quando si tratta di rapportarsi alla Realtà. Non accontentatevi di ridurre gli oggetti alla Coscienza. Non fermatevi lì. Riduceteli al Principio-Io. Riducete anche tutti i sentimenti alla pura Gioia, poi riduceteli al Principio-Io.

Atmananda apprezzava le parole Coscienza e Gioia per parlare dell’Ultimo, ma una citazione come quella mostra che, alla fine dei conti, preferiva il termine Principio-Io. Disse una volta che, in confronto al principio-io la parola coscienza è la teoria! Considerava infatti che la parola Io è quella che ha maggior possibilità di essere compresa correttamente. Tutti gli oggetti di percezione possono essere incompresi, finchè quello che può essere chiamato “voi-stessi”, ciò che non può essere percepito, “Io”,  può essere la causa di una cattiva comprensione.

Considerava il Principio-Io come il vero scopo di ognuno, perché è contenuto in ogni sforzo.

L’uso della parola “Principio” per Atmananda non deve essere visto come un tentativo intellettuale o filosofico per comprendere l’ “Io”. E’ il suo modo di usare una parola per ciò che Io è in se stesso, Io in quanto tale. Ciò che Io in quanto tale è veramente, precisamente, precede ogni movimento o struttura mentale.

Con espressioni come “in se stesso” o “in quanto tale” la lingua sembra ristretta. Tocca i suoi limiti. Un cosa si riferisce a se stessa. Qualcosa “in quanto tale” non si trasforma in qualcos’altro un istante dopo. E’ il punto invariabile nel cambiamento permanente, è la sua vera natura, che non consiste in niente altro. Atmananda utilizzava spesso il termine sanscrito “svarupa”, vera natura, che si riferisce alla permanenza di un elemento, con altri termini che considerava sinonimi, come “contenuto”, “substrato”, “stato puro” e “stato naturale”. Usava quei differenti termini per dire una sola e stesa cosa.

Ogni tentativo di parlare della natura essenziale di qualcosa può, alla velocità della luce, trasformarsi in incomprensione. E’ il problema della lingua. Per esempio, una parola come “essenza” può suggerire la presenza di un essere o di un nocciolo minuscolo, sottile, nel centro di una forma più grossolana. Come se doveste scoprire l’essenza di qualcosa aumentandone sempre più la grandezza di un microscopio per tentare di osservare ciò che c’è nel nocciolo. Qualcosa di simile è presente nei commenti popolari del passo conosciuto come Chandogya Upanisad in cui Uddalaka insegna a suo figlio tagliando un frutto in pezzi sempre più piccoli.

Atmananda, come maestro spirituale, insisteva molto sul disprezzo che può essere in quella miopia. Infatti quel modo di investigare interiormente sarà sempre la trappola di ciò che egli chiama “oggettivazione”.

Chiamava oggettivo e soggettivo in un modo insolito per l’Occidente. L’oggettivo non indicava per lui imparzialità, ma si riferiva a ciò che può essere osservato, cioè a un oggetto dei sensi e dei pensieri. E così per il soggettivo: non designava un punto di vista o un’opinione di una persona, ma solo a chi è Soggetto, ciò che per definizione non può essere osservato e che in Se stesso illumina ogni oggetto.

Di conseguenza, un’investigazione che consista in ricercare qualcosa di interiore come un’essenza o un nocciolo non ha niente a che vedere con la visione diretta dell’ Ultimo. Così non si può dire che la ricerca in fisica e una vera via di conoscenza di sé sia una stessa cosa, come è a volte suggerito in certi gruppi dell’ Advaita. La fisica resterà sempre il luogo dell’ “oggettivo”. E lo stesso è con il concetto di “che comprende tutto” usato per esprimere nozioni come il Cosmo, lo Spazio o l’Infinito. Atmananda una volta portò un’indicazione, una bella visione delle cose: “Lo Spazio” (Akasha) benché non percepibile dai sensi, è sicuramente concepito dalla mente. E’ perciò realmente oggettivo, per natura. Se diamo allo Spazio quest’ultima colorazione d’oggettività, cessa d’essere morto e inerte, per illuminarsi e brillare come il suo substrato, la Realtà.

L’insegnamento di Atmananda è tutto centrato sul Soggetto. S’attacca esclusivamente a Quello che conosce, Quello che conosce non è un Conoscitore (non un lui o una lei) ma la Conoscenza in quanto tale (Jnana). Questa “conoscenza in quanto tale” la chiama anche “Esperienza”, volendo dire “esperienza in quanto tale, e anche Sensazione in quanto tale (Rasa), tutte e tre sinonimi della Potenza che alla fine è l’Io sono. I testi seguenti illustrano questo punto:

“Il Principio-Io è la sola esperienza che ciascuno possa avere. Malgrado la sua ignoranza, non può che avere l’esperienza di se stesso. Se l’esperienza integra numerosi oggetti, non è l’Esperienza. Voi sovrapponete degli oggetti alla vostra Esperienza, che è una e unica, per sempre.”

E: “Vi ho già provato che nessuno può conoscere altro che il suo proprio Sé, il Principio-Io. La sola esperienza è “Io” e “Io” è la sola parola che designa l’esperienza”. E infine: “Non domando nessuna prova. Ciò che è oggettivo non può esistere indipendentemente da questo “Io” e perciò il “Principio-Io” è la sola Realtà ultima.

Questo modo radicale di esprimersi, per cui ogni cosa può essere ridotta a Quello che conosce, implica che gli oggetti non devono essere eliminati o ignorati, ma al contrario che devono essere considerati come quelli che puntano verso la Realtà. Allo scopo di conoscere il Sé, la maggior parte dei testi dell’Advaita raccomandano come sia meglio imparare a non prestare attenzione agli oggetti dei sensi. Ma Atmananda, concretamente, metteva in luce che niente è di ostacolo. Nessuno è mai veramente risucchiato in un oggetto, o impedito da un ostacolo. “Niente vela la coscienza”