La coscienza frammentata e il mito dell’unità secondo le scienze cognitive di 3ème Millénaire

3ème Millénaire  n.78 – Traduzione di Luciana Scalabrini

Tra gli insegnamenti spirituali contemporanei che insistono sulla nostra frammentazione, noi troviamo sicuramente l’insegnamento di Krishnamurti, ma anche, sul tema della molteplicità dei “me”, “L’insegnamento sconosciuto” di Gurdjieff, che è all’avanguardia nella sua forma e nel suo approccio. Tanto più che gli avanzati nelle Scienze Cognitive confermano le sue nozioni più originali, di cui , in particolare quella delle diverse velocità dei centri. L’assenza di volontà cosciente ne è un’altra altrettanto importante, uscita da quell’insegnamento che, come ogni insegnamento tradizionale, dichiara che l’uomo ordinario vive, pensa, si muove e si emoziona in una sorta di sonno ipnotico, identificato a desideri e paure, immagini e credenze che gli nascondono la Realtà o anche la sua vera natura. Quella vita meccanica, incosciente della nostra esistenza nello stato ordinario, si ritrova corroborata da esperienze in neurofisiologia effettuate in quasi cinquanta anni di ricerca.

L’assenza di un Me individuale cosciente, d’una entità spirituale, libera e eterna, diventa l’indiscutibile evidenza delle Scienze Cognitive.

Estremamente importante per l’uomo d’oggi, desideroso di non eludere le proprie aspirazioni spirituali, è sapere che quelle scienze contemporanee ritrovano là nozioni iniziatiche e tradizionali assolutamente fondamentali.

Esperienze scientifiche sulla velocità dei centri.

Le prime esperienze realizzate da Benjamin Libet, mostrarono l’incoscienza  della nostra attività volontaria e le differenti velocità delle nostre  funzioni mentali, emozionali e motorie. Gurdjieff, trasmettendo, per un insegnamento vissuto, le sue conoscenze neoplatoniche, fece scoprire ai suoi adepti la lentezza abbastanza sconvolgente del centro intellettuale, sorpassato in celerità dai centri emozionale, motorio e istintivo.

Così la nostra facoltà di rappresentazione, la nostra facoltà cognitiva sotto la forma dei pensieri ordinari che ci abitano, è molto più lenta della nostra attività motoria, istintiva ed emozionale. E’ quello che dimostrò B. Libet in un contesto di osservazione sperimentale con soggetti provvisti di elettrodi. Mentre una stimolazione elettrica della pelle su una mano è registrata dalla corteccia cerebrale in 30 millisecondi, 500 millisecondi sono necessari perché quella stimolazione arrivi alla coscienza del soggetto. Viene constatato lo stesso distacco per la presa di coscienza di un oggetto visivo. Se un automobilista in possesso dei suoi mezzi frena in circa 150 millisecondi, prende coscienza  un poco più di 300 millisecondi più tardi, che un gatto o un bambino attraversa imprudentemente la strada.

Se gli sperimentatori constatano che il soggetto è persuaso d’aver preso coscienza  del bambino prima d’aver deciso di frenare, poi d’aver eseguito per evitare una disgrazia, la registrazione cerebrale contraddice quella credenza. Secondo Gurdjieff, i centri istintivi e motori funzionano molto più in fretta del centro intellettuale; la presa di coscienza della situazione ci fa realizzare che dormiamo e che i nostri atti avvengono meccanicamente. Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia, conferma quel punto di vista “iniziatico” : l’uomo dorme nella sua volontà, sogna nelle sue emozioni e non si risveglia che nel suo pensiero- quando pensa!

Esperienze più recenti consistono nel presentare a un soggetto normale, nello spazio di una frazione di secondo, foto di visi allegri, tristi o neutri. L’istante in cui il viso triste o allegro o neutro è presentato alla vista del soggetto è abbastanza breve perché questo non sia riconosciuto dalla coscienza. Immediatamente dopo, un viso neutro è mostrato più a lungo all’attenzione per mascherare l’impatto del primo viso. Quando il primo viso è allegro, benchè non sia percepito dalla coscienza del soggetto, si registra una reazione del muscolo zigomatico, propria del sorriso. Se è triste, si registra  la reazione inconscia del muscolo corrugatore che aziona l’aggrottare delle sopracciglia. Sembra proprio che quel tipo di esperienza metta in evidenza la maggior rapidità del centro emozionale rispetto al centro intellettuale.

L’esistenza inconscia dei nostri “me”.

Mentre l’approccio classico o filosofico consisteva nel considerare la coscienza come un’entità unificata per tentare di localizzarne la sorgente, la ricerca di punta, come quella di  Ray Jackendoff, afferma che la coscienza è fondamentalmente divisa e che si devono cercare le molteplici fonti  “ogni modalità di coscienza proviene da un livello o da un insieme di livelli di rappresentazione diversi. L’assenza d’unità della coscienza è dovuta al fatto che ciascuno di quei livelli differenti comporta il suo repertorio di distinzioni” (Ray Jackendoff).

Le ragioni molto complesse di questo approccio della non-unità della coscienza, rifiutano l’esistenza di un Sé, o di un Me, unificato o unificatore. Quell’assenza di unità interiore comporta, secondo Marvin Minsky, una necessaria sorveglianza fornita dalle nostre rappresentazioni di ciò che la mente dovrebbe essere. Per i ricercatori non c’è  nessuna entità centralizzata e onnipotente, ma esiste in noi  una società d’idee che includono le nostre immagini di ciò che è la mente e anche i nostri ideali.

Questa società eterogenea  funziona, dopo Gerald Edelman, sul principio della selezione darwiniana e, nel caso del cervello, della selezione dei gruppi neuronali. Questa ipotesi scientifica si basa evidentemente sul postulato che la cognizione e l’esperienza cosciente discendono da processi e organizzazioni neuro-biologici.

I “me” si definiscono ciascuno con “una personalità in noi, un piccolo essere provvisto di una parte intellettuale, emozionale e motoria” (Maurice Nicoll). Essi si succedono per associazioni d’idee, per reazione e opposizione, per approvazione o contraddizione… E ogni successione di me si effettua a un livello che soggiace alla nostra coscienza ordinaria, o centro intellettuale inferiore, secondo la denominazione di Gurdjieff.

L’inconscia sorgente della creatività.

 

Ma la coscienza di cui parliamo qui non è che il nostro pensiero ordinario, cerebrale, ombra proiettata sulla parete della nostra caverna, secondo l’analogia platonica; è la manifestazione del nostro centro intellettuale, lento e incapace di percepire l’inconscia attività emozionale e istintiva soggiacente alle nostre funzioni cognitive.

Su una modalità di funzionamento estremamente rapida, Gurdjieff indica l’esistenza di due centri superiori, l’uno emozionale, l’altro intellettuale. I centri sono in noi; sono pienamente sviluppati e lavorano sempre, ma il loro lavoro non arriva alla nostra coscienza ordinaria. Questa realtà intelligente che ci sfugge è una sorgente di creatività come lo suppongono, dopo Jacques Hadamard, le esperienze di molti matematici contemporanei, da Poincaré a Alain Connes. In questa prospettiva Pierre Buser mostra come “l’intuizione è una porta aperta sull’inconscio”. L’inconscio, o piuttosto il superconscio, copre una vasta dimensione misteriosa, verso cui la nostra coscienza troppo lenta non può rivolgersi.

Nullità verso l’Unità.

Le difficoltà quasi insormontabili che incontra il ricercatore spirituale riguardano il fatto che questo non ha realmente esistenza cosciente. Questa scoperta, per l’insieme dei ricercatori in Scienze Cognitive, fu espressa da Marvin Minsky che dichiarò che “forse è giusto perché non c’è nessuno nella nostra testa per farci fare quello che vogliamo, neanche per farci volere volere, che creiamo il mito secondo cui siamo  all’interno di noi stessi”.

Questa constatazione improvvisa non contraddice affatto la via spirituale, che implica che “l’uomo deve realizzare che non esiste”. Il potente presentimento della nostra inesistenza ha giustificato, nel corso del ventesimo secolo, la importantissima filosofia esistenzialista d’un Sartre, che si trova oggi totalmente degradato a un nichilismo che i nostri politici rifiutano di vedere. Che non esistiamo, che siamo fatti di me, di frammenti o di carte neuronali impermanenti è anche la visione buddista della verità sull’uomo.

Ma non si tratta di farne una concezione o una teoria sofista della coscienza, si tratta di realizzarne coscientemente la verità, di imparare a vederla e più ancora a vedere ciò che è. “Svegliarsi significa realizzare la propria nullità, cioè realizzare la propria meccanicità, completa e assoluta”. (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto).

L’illusione di essere un sé unificato, considerato a torto come necessario a un ricercatore come Marvin Minsky, deve essere smascherato. E’ quello a cui Francesco Varela  s’è attenuto per aprire le Scienze Cognitive al contesto buddista dell’esperienza umana. Il cambiamento  creativo, la cosiddetta evoluzione spirituale è a questo prezzo! “Consideriamo il nostro essere come un’unità e crediamo di essere un me unico. Si tratta di un’illusione e finchè quella rimane, è realmente impossibile cambiare”.

Il filosofo Krishnamurti ha a lungo insistito sull’importanza di scoprire la frammentazione della nostra coscienza, che non può essere unificata con intenzione, qualsiasi essa sia, per quanto santa sia. Pose il problema in questi termini: “Il modo di prenderla è questo: non bisogna fare assolutamente nulla. Siete capaci?”. Sicuramente non facciamo niente per unificare la nostra coscienza divisa e ogni azione o reazione in quel senso non può che rafforzare la divisione di un me più “spirituale” sul nostro caos interno… e il nostro caos rimane! Ma qui si tratta di non fare assolutamente nulla nel senso tradizionale del non-agire taoista o della via dello Yoga, o via dell’unità. Lo Yoga, come lo traduce Jean Bouchard D’Orval è “la cessazione della frammentazione mentale. La coscienza allora è stabilita nella sua vera natura”.

Così la via dell’unità non può essere perseguita che in modo negativo, senza il quale non è possibile arrivarci.

Le nostre facoltà cognitive, rappresentazioni mentali, ragionamenti, sono messi a dura prova fino a che non realizziamo  che  il nostro centro intellettuale inferiore non può connettersi ai centri superiori.

Perché la nostra coscienza ordinaria non ha la rapidità sufficiente; è quel che bisogna vedere. E questo vedere, che non è appannaggio della nostra coscienza ordinaria, Husserl lo presenta come “una riduzione fenomenologica trascendente”, una “messa tra parentesi”, o “messa fuori circuito” di tutti i nostri saperi, al fine di scoprire “l’accesso alla coscienza pura”. Ritroviamo là il senso profondo dell’unione, che si opera con la cessazione della frammentazione mentale, o, secondo altre traduzioni, con l’inibizione delle modificazioni della mente. Il metodo anti-metodo scoperto da Husserl non è nuovo! Ma in quanto “nuova scienza” può portare a un vero cambiamento creativo in seno alle Scienze Cognitive.