La disciplina spirituale buddista di Alexandra David-Neel

a cura di L. Scalabrini

Il Lama Yongden, come tutti i pensatori del suo paese, era segreto e silenzioso e, come loro, metteva sulla sua attività spirituale la maschera di occupazione banale che lo isolava dalle curiosità che avrebbero potuto manifestarsi attorno a lui riguardo alle  sue credenze o allo scopo che perseguiva. Coltivava dei rosai nella nostra proprietà delle Alpi, leggeva le opere filosofiche del Tibet che avevamo raccolto e soprattutto rifletteva. Molto spesso annotava le sue riflessioni per paragonare quelle che aveva fatto in diverse circostanze o in epoche diverse della sua vita. Praticava così quel principio essenziale della disciplina buddista: l’attenzione vigilante, quella continua presenza, quella lucidità di cui si dice nel Dammapada:

« L’attenzione è il cammino che conduce all’affrancamento dalla morte, la disattenzione la non riflessione è il cammino che porta alla morte. Quelli che sono attenti non muoiono , i disattenti sono già come dei morti.»

Commentando questa dichiarazione del Dammapada, il Lama Yongden notava:
La visione giusta che figura come primo articolo del programma della disciplina buddista è inseparabile dall’attenzione perfetta. Infatti ne è un prodotto. L’attenzione penetrante e sostenuta avrebbe potuto essere posta in testa al programma poiché è la condizione indispensabile  dell’acquisizione di conoscenze corrette, cioè di visioni giuste.

A cosa quell’attenzione dovrebbe essere applicata? Deve applicarsi a ogni cosa , ai fatti materiali che scopriamo attorno a noi con i nostri sensi. Ai movimenti mentali che possiamo scoprire negli altri: idee, passioni sotto tutte le loro forme e in tutte le loro manifestazioni. Ma l’attenzione continua deve soprattutto essere diretta su noi stessi.

Bisogna guardare le nostre reazioni ai diversi contatti dei nostri sensi fisici e del nostro spirito con il nostro ambiente. Dobbiamo scoprire, al passaggio, le nostre manifestazioni della attività fisica e mentale, fermarle per interrogarle: da dove vieni? Cosa ti ha generato? Chi sono i tuoi padri e le tue madri? E quelli che si possono scoprire tra la ressa degli antenati?

Un problema posto ai loro discepoli dai Maestri della setta di meditazione (quella che gli occidentali gli occidentali conoscono sotto il nome di Zen)  è questa: “ Che viso avevi prima che tuo padre e tua madre fossero nati?”

Degli adepti del Ts’an dicono che quel problema può raffigurare la successione delle esistenze, ciò che nel linguaggio popolare si chiama reincarnazione, o che può rapportarsi alle origini della messa in moto dei fenomeni che costituiscono il mondo.

Senza perderci nella costruzione di ipotesi, frutti della nostra immaginazione, un vano lavoro contro cui il buddismo ci mette in guardia, dobbiamo imparare a chiarire il groviglio delle molte cause che si sono provvisoriamente incontrate per portare gli effetti che constatiamo in noi e attorno a noi.

Quelle cause non si sono incontrate e unite per caso. Esse hanno subito l’influenza di altre cause che le hanno dirette, che non sono unicamente esteriori; possono attenere alla natura degli elementi dell’aggregato stesso.

Si sente  che spesso i buddisti parlano della memoria che un individuo conserva delle sue antiche incarnazioni.
Numerose opere del genere dei Jataka descrivono , in dettaglio, episodi di vite successive di personaggi umani, divini, o anche animali che sino detti essere stati dei Budda che si preparavano, nel corso di diverse esistenze a raggiungere il grado perfezione di perfezione morale e mentale e la acutezza di percezione indispensabile alla illuminazione spirituale.

Molte personalità buddiste eminenti sono gratificate da genealogie di quel genere. In Tibet i Lama chiamano Yulkus quelli che gli stranieri definiscono molto impropriamente dei Budda viventi; sono ritenuti un anello di un seguito di incarnazioni di una stessa personalità. Del resto in questa credenza ciascuno di noi, prima di nascere in questo mondo, ha compiuto un lungo viaggio trasmigrando di corpo in corpo e a volte di mondo in mondo. Questa credenza alla quale aderisce la maggioranza dei buddisti, che non sanno e sono in contraddizione coi principi fondamentali del buddismo, è ricalcata sulla teoria hindu che riguarda lo Jiva, principio che trasmigra di corpo in corpo.

La famosa opera hindu, la Bhagavad Gita, dà una chiara spiegazione di questo: “ Come un uomo lascia dei vestiti usati per prenderne dei nuovi, così quello che è incarnato getta il corpo usato per prenderne uno nuovo”.

Come una tale concezione potrebbe trovare posto in un insegnamento che proclama il carattere transitorio di tutti i gruppi di elementi e che nega l’esistenza in essi di un elemento permanente qualunque: Jiva, anima, spirito, me, o qualunque sia il nome che gli si voglia dare?

ANICCA ANATTA : Impermanenza. Assenza di ego dappertutto, in tutto. Questo è il credo buddista.

Quel credo il buddista non lo presenta come una rivelazione; è il frutto di una scoperta, di una conoscenza acquisita per mezzo dell’attenzione, dell’investigare continuo. È con l’esame, con la riflessione- meditazione che il Budda è giunto all’illuminazione spirituale ed è possibile a ciascuno di noi ottenerlo in noi servendoci dello stesso mezzo.

Cos’è la rinascita per i buddisti illuminati? Consiste nell’attività persistente di un’energia che si manifesta in diverse forme in virtù di una combinazione di cause ed effetti.

Ciò che considero come un me, come non me, come unità, una persona, è in realtà un aggregato instabile di elementi, un aggregato di vie, si può dire, che vengono da sorgenti diverse, che si trovano momentaneamente riunite e attive.
L’attività dei diversi elementi, entrando nella composizione dell’aggregato, non si esercita sempre in cooperazione, né sempre nel medesimo tempo. Mentre gli uni sembrano essere  intorpiditi, la vitalità di certi altri si manifesta con violenza; gli uni tendono verso un certo scopo, gli altri verso uno tutto diverso o addirittura opposto. Da lì risultano quei conflitti mentali quando ci sentiamo spinti all’azione dagli istinti, da desideri contraddittori.

Una continua attenzione, un perspicace indagare, ci mostrano che non siamo un’unità ma una pluralità, temporale, ospiti di diverse origini, venuti da tutte le direzioni dell’universo, in lunghe serie di cause ed effetti senza che ci sia possibile un punto iniziale di partenza.

Si dice nel Samyutta Nikaia: “ Inconoscibile è l’inizio di questo lungo pellegrinaggio degli esseri avviluppati nell’ignoranza che, spinti dal desiderio, continuano la ronda delle rinascite e delle vite senza posa rinnovate”.

Il buddismo non si propone di darci una spiegazione riguardante l’origine del mondo e degli esseri animati. Si indirizza a degli uomini che respingono i racconti mitologici e le spiegazioni sull’origine dell’universo. Del resto, sembra che su questa questione delle cause prime che hanno fatto nascere l’universo e, in un ambito più ristretto, che hanno presieduto  alla comparsa della vita sulla terra, i sapienti dell’occidente raggiungono i pensatori indiani: quelli che si sono espressi nel Samyutta Nikaia  citato e quelli che prima di loro cantavano negli inni dei Rig- Veda. “ Chi sa da dove  è venuta questa creazione?…”
“ Colui che siede nel più alto dei cieli, forse lo sa, o forse non lo sa.”

Se il buddismo scarta il problema di una causa prima, esorta i suoi seguaci a sforzarsi di discernere la natura degli elementi che costituiscono quello che chiamano il me. Li incoraggiano a risalire il più lontano possibile  il corso delle cause che hanno contribuito alla costituzione di quegli elementi e hanno condotto alla loro momentanea riunione. I buddisti sono invitati a sorvegliare con una continua attenzione il comportamento di quei diversi elementi, le loro relazioni concordi o discordanti gli uni con gli altri, l’appoggio che si danno e la lotta tra loro. La visione chiara di queste diverse attività, proseguendo in lui, spiegherà all’osservatore i suoi cambiamenti d’umore, i suoi cambiamenti di opinione e la diversità dei comportamenti che ne conseguono.

Veramente ogni sedicente ego è un crocevia dove si urta una folla, continuamente , venendo da molte strade, a cui si aggiunge di continuo altra folla da altri crocevia dell’universo.

È bene tendere  a questa visione dell’unione attraverso la diversità, sentir vivere altri in sé e percepirsi vivere in altri .

Così, io ed altri  abbiamo vissuto in una interdipendenza senza un inizio percepibile, continueremo ad esistere senza un termine concepibile; è l’equivalente ,nella scala umana, della vita eterna fatta di continue morti e di continue rinascite.

Dobbiamo fermarci a questa concezione, per quanto possa apparire giustificata, e ritenerla una verità assoluta?

La risposta a questa questione ci conduce in quella sezione del buddismo i cui membri si rifanno a Nagarjiuna ed a altri pensatori della sua scuola che affermano di essere i più fedeli rappresentanti del pensiero di Budda.

Bisogna distinguere, dicono, due specie di verità: la verità relativa e la verità assoluta. Solo la verità relativa ci è accessibile. Essa è alla misura degli esseri come noi, provvisti di mezzi di percezione umani, cioè dei 5 sensi che si adattano agli oggetti materiali e della mente che si applicano a concetti astratti.

Se non esiste verità assoluta o se essa ci è inaccessibile, possiamo parlare di una verità assoluta? Certamente no.
“ Come immagini viste in sogno, così bisogna guardare tutte le cose”.
È con questa dichiarazione che termina il libro del “passaggio al di là della saggezza”, la Prajna paramita.

La scuola filosofica buddista che si rifà a Nagarjiuna ed alla Prajna Paramita di cui si dice essere l’autore, insegna che il nostro mondo e gli oggetti materiali e mentali coi quali lo accompagniamo è fatto di costruzioni a cui non smettiamo di abbandonarci. È il samskara, che significa assemblaggio di confezioni che nei più antichi testi buddisti  si dice siano alimentati dall’ignoranza, produttrice di sofferenza.

Uno dei principi maggiori che i maestri tibetani si sforzano di inculcare nei loro discepoli è: “ Non immaginate, non abbandonatevi ad un gioco di costruzioni mentali, edifici costruiti  da immagini, come delle nubi: teorie e dogmi basati sul vuoto”.

Prima del buddismo, gli indiani dicevano già in modo figurativo: “Il mondo è il sogno di Brahma. Quando Brahma smette di sognare, il mondo scompare”.

Per i buddisti intellettuali appartenenti al Mahayana, il mondo è, non il sogno di un ipotetico dio Brahma, ma il nostro sogno, di ciascuno di noi.

Ciascuno di noi confeziona continuamente nella mente le immagini del mondo dai molti aspetti che gli sembra circondarlo e in cui si vede giocare un ruolo, come gli capita di fare in sogno. Il mondo non è fuori di noi, ma in noi.

Il problema di una causa prima dell’universo da allora non si pone più. Il nostro universo comincia ad ogni istante con i nostri pensieri che ne tessono le forme illusorie, simili a immagini viste in sogno, come dice Nagarjiuna.

Astenersi da quella creazione immaginativa è difficile. In un testo canonico buddista, il Budda riflettendo dopo la sua illuminazione ed esaminando i fatti che gli erano apparsi dichiarò: “ Sarà cosa estremamente difficile per gli uomini comprendere l’estinzione del samskara, la quiete del nirvana”.

Nessun termine del vocabolario buddista è stato più mal compreso dai non- buddisti di quello del nirvana. Si è detto che significa l’annientamento dell’individuo, del me. Come il buddismo potrebbe parlare di annientamento di un ego di cui nega formalmente l’esistenza?

La distruzione di cui si tratta è quella delle costruzioni fantastiche, irreali, fatte dall’immaginazione e alimentate da visioni sbagliate dipendenti dall’ignoranza.

L’attenzione vigile smaschera precisamente l’inconsistenza di quelle costruzioni e impedisce che ne sorgano altre simili .

Così avrà raggiunto l’al di là di ciò che costituisce il mondo, la soppressione del sogno, il risveglio, il nirvana.

Colui che, pur conservando le apparenze di un ruolo da giocare in questo mondo, lo considera con la serenità che dà la conoscenza della sua vera natura di immagini viste in sogno, di cui lui stesso è il creatore, chi ha sciolto con l’investigazione profonda le false nozioni non ha bisogno di morire per arrivare al nirvana. L’ha raggiunto come il Budda e come numerosi suoi discepoli.

La morte non è per loro ciò che appare agli uomini comuni prigionieri delle costruzioni mentali. Essa ha cessato di esistere per loro che hanno smesso di crearle una realtà, come creiamo eventi creati nel sogno.

Si dice nel Dammapada: “Colui che guarda il mondo con lo stesso occhio con cui guarda una bolla d’aria, quello è capace di non vedere più il regno della morte”.