L’uomo ha un avvenire? di Robert Powell

3ème Millénaire n. 68 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini

Può accadere che abitualmente, quando ci si pone questa domanda, abbiamo in mente l’eventualità di un’apocalisse, l’uomo che annienta se stesso in un olocausto nucleare o per l’aumento dell’inquinamento dell’ambiente. Lo stato attuale della tecnologia rende possibili queste eventualità per la prima volta nella storia del mondo. Tuttavia, la nostra interpretazione di questa questione in questo senso particolare viene dal fatto che pensiamo sempre all’uomo collettivamente; ma la collettività non ha una vera esistenza, in quanto astrazione. Non c’è che l’individuo; e nessuno si domanda mai se l’uomo come individuo ha un avvenire, perché si deve fare la scoperta sconfortante dell’evidenza: dire che l’uomo è senza avvenire è una verità sgradevole da sentire. Ognuno di noi è condannato a morire ed è semplicemente una questione di tempo prima che la condanna sia eseguita. Però tutte le nostre azioni contraddicono questa verità; costruiamo sempre una tribuna per l’ego che vuole resistere ai danni del tempo. E’ come se, agendo in quella maniera strana, potessimo allontanare indefinitamente il confronto con quello che è, ignorando così la nostra vera natura, non pensando troppo spesso alla morte; e quando lo facciamo preferiamo sottrarla ai miti sulla sopravvivenza personale; tentiamo di sfuggire  ad un’importante delusione mentale. E, in certo senso, non c’è niente di male a ignorare qualcosa, se non fosse per la ragione che è solo la parte superficiale della mente che la dimentica; le zone più profonde della mente sono coscienti della finitezza dell’uomo. In questo modo c’è una contraddizione evidente che genera la paura che si nasconde dietro ogni nostra attività (che è solo una fuga).

Mi sembra che oggi, se l’uomo potesse solo prendere coscienza della sua natura effimera a ciascun livello del suo essere, e vivesse in accordo con essa, non caccerebbe solo la paura sempre presente, ma creerebbe un mondo tutto diverso. Nella corsa di mezzo fondo in cui è impegnato ora, attribuendo all’ego una vita illimitata, accede al peggio dei due mondi. Da una parte, fa sorgere nella psiche una situazione di conflitto, dall’altra, non c’è differenza tra considerare l’ego con una durata di vita limitata e il proprio essere d’una natura permanente. Infatti, finchè attribuiamo all’ego una qualunque esistenza nel presente, gli concediamo un avvenire, perché la sua vera natura è la continuità.

Il mondo porta pesantemente l’impronta dell’ego. Perfino gli ideali meno egoisti (l’amor di patria, della religione, del partito) non sono liberi dal modo di vivere dell’ego. E’ perché ci identifichiamo con la collettività che contaminiamo l’azione della collettività. Per comprendere perché questo necessariamente si deve produrre, dobbiamo studiare la natura dell’ego. L’ego si crea attraverso la cristallizzazione di certe abitudini nelle relazioni sociali; non ha che un’esistenza relativa ed è, in gran parte, una specie di mania sociale.  Immaginate un uomo che sia vissuto in un’isola deserta e non sia mai stato esposto a un contatto umano. Il suo ego, le sue concezioni e il suo modo di pensare sarebbero del tutto diversi da quelli di una persona che vive in seno alla società. Se tutto questo è chiaro, allora si può vedere che la formazione dell’ego è un processo di sfruttamento: l’ego si costruisce, ed è nutrito ogni momento, a spese degli altri ego. Diciamo: “Voglio prendere un vantaggio”, ma cosa vuole veramente dire? Vantaggio sugli altri, sicuramente; così il processo è relativo, e l’espansione del mio ego implica obbligatoriamente  l’abbassamento di altri ego. Affermandomi come io sono, calpesto altri esseri. Estrapolando, lo stesso principio si applica nello stesso modo a gruppi, come la famiglia, la nazione, ecc. Lo stesso insediarsi di una entità collettiva è un atto di aggressione che porta a relazioni antagoniste tra le varie entità.

Non è certo una semplificazione eccessiva dire che, quando l’uomo cesserà di nutrire l’ego, finirà ogni conflitto nel mondo; inversamente, finchè l’uomo segue la via dell’ego, i conflitti e il deterioramento della società saranno i fatti della vita. E dunque, paradossalmente, non sarà che quando l’uomo cesserà, individualmente, di lavorare per il suo avvenire, che ci sarà un avvenire per l’uomo collettivamente.