Vedere, azione ultima

 

ERIC  BARET

Vedere, azione ultima

 

Traduzione di Maurizio Redegoso Kharitian

 

3M: Che cosa intendiamo con la parola tradizione?

Eric Baret – La tradizione é l’arte di ascoltare senza aspettativa. Tutte le altre tradizioni sono delle forme di caricature, dei prolungamenti di quest’arte primordiale. Quest’arte può essere espressa sotto la forma della teologia cristiana, indù o islamica, ma, é di quest’arte che si parla. Non bisogna confondere la tradizione, nel senso essenziale del termine, con le forme che questa tradizione ha preso attraverso gli anni ed i luoghi. E’ perché voi presagite l’essenza della tradizione che avete la stessa gioia di leggere Abhinavagupta, Maestro Eckart o Lie Tsu.

La tradizione é stata inventata per aiutarmi a vedere la mia arroganza.

 

3M: Potete spiegarci come possiamo mettere in relazione la gratuità della vita e la chiarezza dell’attenzione? Certe tradizioni dicono che occorre essere aperti, attenti ed altre che occorre vedere chiaramente ciò che vogliamo.

Eric Baret – Quando voi vedete chiaramente, vi rendete conto che ciò che volete é essere liberi di volere. La vostra soddisfazione più profonda é di essere senza desiderio. Non vi é niente d’intenzionale qui dentro, unicamente ascolto ed umiltà in rapporto a ciò che voi percepite. Non studiate i testi spirituali ma il vostro funzionamento. La tradizione non parla che di voi. Maestro Eckart non parla che per colui che ascolta. Non é Maestro Eckart che é importante, é il vostro funzionamento.

 

3M: Quando ascoltiamo ed esploriamo attraverso lo yoga la corporalità, ho il sentimento che questo abbia un’influenza nella vita di tutti i giorni, che vi sia una trasposizione e volevo sapere se il contrario é ugualmente vero.

Eric Baret –   Non vi é separazione. Non é nemmeno come se ci fosse un’influenza dall’uno all’altro. Non vi é l’uno e l’altro. Siamo noi che “scompartimentiamo” la vita. Alla fine non é nemmeno lo yoga che si traspone nella vita di tutti i giorni. E’ il vostro ascolto che si traspone nello yoga e nella vita di tutti i giorni. Certamente, se in ciò che chiamate la vita di tutti i giorni, realizzate in un solo istante la vostra sufficienza, la vostra intenzione, questa apertura va a trasporsi nel vostro modo di praticare lo yoga, di cucinare o di fare il vostro letto. E’ l’umiltà che si traspone, non é l’attività. Lo yoga é la vita di tutti i giorni.

 

3M: Dove posso cercare?

Eric Baret –   Posso unicamente guardare avanti, che non é di fatto che passato e memoria. Non posso pensare lo sconosciuto. Ciò che cerco é dietro di me. Non posso che andare  davanti a me. Non posso vedere, sono visto. Non posso essere umile, posso vedere la mia arroganza. Cerco di vedere la luce come se fosse un oggetto. La luce non é un oggetto, é rivelata dall’oggetto. Fintanto che guardo davanti a me, non sono disponibile. E’ per questo che nella tradizione indiana, il cercatore é sempre rappresentato in modo femminile. Radha cerca Krishna. Radha non ha alcuna competenza, deve abdicare ogni pretesa per trovare qualunque cosa. E’ Krishna che la trova, non é lei che trova Krishna. Nell’esempio del beato Tauler, devo essere come una pecora, trasportato. Fintanto che ho la pretesa di compiere qualsiasi cosa, fintanto che mi cerco nei miei atti, nei miei pensieri, non sono che arroganza. Non agisco, vi é un’azione, non penso, vi é pensiero. Devo riconoscere la totale assenza di un io. Questo riconoscimento é la femminilità. Fintanto che cerco Krishna da qualche parte, non posso trovarlo. Sono io che sono il trovato quando la ricerca cessa.

 

3M:   Siamo sicuri di essere trovati? Se cerchiamo é perché abbiamo paura di non essere trovati?

Eric Baret –  Colui che cerca, cerca perché é trovato. Altrimenti non potrebbe cercare. Il ricercatore é creato dal ricercato.

 

3M:   Allora é un’assenza di proiezione ed una presenza all’istante?

Eric Baret – Non é assolutamente nulla. Ogni comprensione, tutto ciò che potrei pensare mi allontana. Devo abdicare la mia pretesa di comprendere. Cosa accade quando, in un istante mi rendo conto che tutto ciò che faccio é falso, che tutto ciò che penso é falso? O vado all’asilo psichiatrico, dove vi é un momento di arresto. Un momento dove non posso più proiettare. Questo momento di pausa é l’ingresso nell’ingranaggio, l’orientazione.

Non mi cerco più nei differenti modi della vita, le mie attività, i miei pensieri, ma essere all’ascolto dei miei modi, delle mie attività, dei miei pensieri.

Tutto ciò che appare si riferisce a me stesso in quanto Coscienza. Non mi cerco più nella percezione, la percezione appare per morire. Divento lo spazio nel quale essa appare e scompare. Tale é la sadhana. Non mettere l’accento sulla percezione ma sullo spazio nel quale la percezione appare e scompare. Non mettere l’accento sul pensiero, ma sullo spazio in cui essa appare e scompare. E’ questa la stretta via.

 

3M:    La collera é senza causa come la tristezza?

 

Eric Baret – La collera ha una causa apparente. Ma non vi é causa essenziale. Certamente generalmente vi é una reazione. Appare quando si mette in questione il mio immaginario, l’immagine che ho di me stesso, della mia vita, della mia società. Allora sono in collera in quanto non sono più rispettato. Non sono amato come dovrei esserlo ecc…questa non é collera ma uno sgorbio. La vera collera é un movimento di fondo profondo, un’energia eccentrica che si riferisce alla tranquillità. Non é una collera personale. Se mi libero degli oggetti della collera, niente più mi mette in collera ma rimane questa capacità di collera. E’ un’espressione, un’espressione pedagogica della vita. Con un bambino, un vicino, talvolta occorre mettersi in collera, é una sana collera, non una collera psicologica. L’istante di prima, o dopo non vi é collera, nessuna strategia. Non é una collera contro qualcosa ma una collera per qualche cosa. E’ un’espressione un poco eccezionale, ma ha il suo spazio. Nei rasa, che esprimono le emozioni essenziali dell’uomo secondo la teoria indiana dei sentimenti, la collera ha il suo spazio.

 

3M:   Ma si direbbe che é impregnata nel corpo?

Eric Baret – Non vi é che corpo, l’emozione non é che corpo. Non vi é nient’altro che il corpo. Quando arriva una collera, una paura é il corpo che sente la collera, che vive la paura. E’ nel corpo che la collera oggettiva va a svuotarsi. E’ sempre una mancanza di riconoscibilità. Non vi siete riconosciuti e allora volete che gli altri lo facciano. Sfortunatamente non possono farlo, perché l’ambiente non può che proiettarvi. Nessuno potrà mai riconoscervi. Spetta a voi farlo. Se vi riconoscete profondamente, che l’ambiente vi riconosca o no non vi riguarda più. L’ambiente non parla che a se stesso, vi é un’idea di voi stessi. Nessuno può riconoscervi, ne vostro marito, ne i vostri figli, ne il vostro amante, ne il cane, ne il maiale, ne i vicini. Riconoscersi vuol dire fermarsi di pensare, fermarsi di sapere ed ascoltare. Siete ciò che cercate. Questo, occorre riconoscerlo. La collera é una mancanza di prospettiva. Immagino che mio marito, i miei genitori, i miei amici dovrebbero riconoscermi. E’ una sofferenza senza fine. Spetta a voi ascoltarvi. L’ascolto é amore…

Quando la collera arriva, vivetela, amorevolmente, tattilmente. E’ ciò che é più vicino, la rabbia, il rancore…La collera parla, voi ascoltate. Un giorno non vi é più niente da ascoltare.

Vedere il dinamismo arricchirsi, trasformarsi, cambiarsi, di essere qualcosa in più. Non é più di ciò che devo essere, é meno. Tutte queste tecniche, questi sforzi, queste decisioni, queste intenzioni, queste strategie per essere più liberi, per soffrire meno. Devo vedere che questo meccanismo é la mia sofferenza. Non ho bisogno di più competenze. Non ho bisogno di sapere come fare riguardo alla vita ma di liberarmi della pretesa di poter sopravvivere, di poter fare di fronte a qualunque cosa. Pratico lo yoga per scoprire in me questo spazio di umiltà, libero da ogni sapere, o lo pratico per acquisire più sicurezza? Sto ancora provando di provare a salvarmi o dico grazie, grazie del mio totale fallimento. Il terrore per l’ego, la gioia per il cuore.

Tauler nei suoi sermoni parla di alberi coperti di frutti molto belli quando li vediamo da lontano. Anche quando ci avviciniamo spesso questi frutti sono ancora più belli che i frutti sani, eppure sono pieni di vermi. E’ solo quando il vento soffia e che il frutto cade per terra che ci si rende conto che era bacato. Per Tauler, il frutto sano senza vermi é quello che abdica ogni autonomia, ogni attesa, ogni speranza. Il frutto con il verme é quello che pratica, prova, brilla, conosce. Fintanto che il vento non soffia, questo frutto appare molto più bello che il frutto sano. Ma, quando arriva la tempesta ed il frutto cade vediamo che non c’era nulla. Secondo Tauler quando il frutto cade, i vermi che si dispiegano al suolo sono queste molteplici devastazioni causate all’ambiente dalla mia pretesa di sapere. Quando pretendo di essere autonomo contamino l’ambiente, trasmetto questa sofferenza, questa arroganza.

Nello spirito di Tauler non vi é condanna ma una constatazione. Sto brillando, sto provando a divenire, a purificarmi a miei occhi, o accetto nell’istante la mia totale indegnità ad avere diritto a qualsiasi cosa. E’ in questa presa di coscienza della mia indegnità che la vita può iniziare. Ma fintanto che ho la minima esigenza, la minima aspettativa, la minima speranza sono condannato a vivere la mia miseria. Quale valore, l’artificio? Ma più grande é l’artificio, più duro sarà al momento della morte il faccia a faccia con la realtà. Mi sono seduto su un immagine ed al momento della morte non sarà più presente. Allora devo osservare la mia vera motivazione. Faccio le cose per me, per costruirmi o faccio le cose per la gioia di farle? Devo guardare profondamente.

Quante volte nella giornata riporto le cose a me stesso. E’ questo che devo vedere. La vita spirituale non é diventare spirituali ma di vedere a che punto riporto tutto a me stesso. Qualsiasi cosa io faccia lo guasto a causa della mia intenzione.

Qualsiasi cosa io dia, non la do a causa della mia intenzione. La mia opera é viziata. Non do, io cambio. Non posso dare e chiedere nello stesso tempo in quanto dare é l’assenza di me stesso. Vedere questo funzionamento senza commento, senza giustificazione. Non posso essere altrimenti quello che sono. Non vi é la minima negatività in questo proposito. Siamo tutti identici.

Quando mi rendo conto della mia sufficienza, la gioia comincia ad albeggiare, ma fin quando provo a divenire qualsiasi cosa, vivo costantemente la tensione, la miseria, lo sconforto.

La gioia é di dare.

Perché rifiutarla costantemente volendo ricevere? Ogni istante in cui voglio ricevere, mi privo della gioia di dare. Non vi é gioia più alta che di dare. Quando vedo la mia propria miseria, vedo la bellezza del vicino, ma fin quando vedo la miseria del vicino, non vedo la mia propria bellezza. Ogni volta che vedo, commento, critico la miseria del vicino, sono altrettante cicatrici che m’infliggo perché non sono separato. Fintanto che vedo che qualunque cosa sia negativa, é la mia negatività che sento. Quando il vicino riceve una benedizione, essere felici per lui. In quel momento, ricevo mille volte più di lui, ricevo tutto ciò non avrebbe potuto ricevere. Ma se in quel momento risento della gelosia, dell’invidia ritorno alla mia miseria, mi taglio da ogni ricezione possibile. Devo vedere il meccanismo. Non vi é che l’altro, non vi é se stessi.

Una parabola molto bella é raccontata nel film “Il Dybbuk” del 1937. Un pover’uomo va a consultare un rabbino e gli chiede: “Come posso vedere?”. Il rabbino gli propone di guardare attraverso il vetro. Il pover’uomo vede il mondo che passa nella strada. Il rabbino gli chiede ciò che vede ed il pover’uomo risponde: “ Vedo il mondo”. Il rabbino gli chiede di guardare nuovamente ed allora, per la grazia delle cose, il vetro si é coperto di una placca d’argento ed é divenuto uno specchio. Il pover’uomo dice: “Mi vedo”. Il rabbino risponde: “Hai capito?  Quando copri il vetro d’argento, vedi te stesso, non vedi più il mondo. Il tuo interesse per le cose e l’argento ti taglia dal mondo. E’ lo stesso specchio ma in uno vedi il mondo, la libertà, nell’altro ti vedi e vi é la miseria”.

Devo guardare in ogni cosa e mi chiedo se cerco il mio interesse o se agisco liberamente, senza strategia.

Non é un esame di coscienza morale, ma un ascolto di una totale precisione.

Devo sentirlo in ogni cellula. Quando in me sopraggiunge il meccanismo di provare, devo sentirlo in tutto il corpo come un colpo di frustino. Non é una sofferenza psicologica, é una sofferenza chiara per mostrare la direzione. E’ questa la sadhana.

Non é praticare lo yoga, leggere dei testi, sorvegliare la propria alimentazione, moderare la sessualità, essere fedeli, inviare denaro in Africa, ma di guardare come funzioniamo istante dopo istante senza commenti. Ciò che faccio non ha alcuna importanza, é ciò che vedo che è importante.

Quando vedo la mia arroganza, questa visione equilibra tutto il mio ambiente. Posso essere un istante senza intenzione, senza speranza, senza domanda.

Attenzione di non comprendere al contrario, di pensare che vi sarebbero cose da provare. Non vi é nulla da provare. Non vi é nulla di pesante, niente da cambiare. Ciò non impedisce di giocare con il gattino, di fare il proprio letto o di andare al cinema.

Questo impedisce semplicemente di elemosinare, di soffrire, di sperare. Questo non impedisce solo la miseria. Il mio orgoglio punta verso la mia libertà perché non vi é altra cosa. Il mio limite rivela il mio non-limite. Non vi é nulla da cambiare ma da guardare. Attenzione di non provare di diventare questa disponibilità. E’ impossibile in quanto é ciò che sono già salvo quando provo di divenire qualsiasi cosa. L’asilo psichiatrico o la tranquillità. L’uno non esclude l’altro.