Coscienza e attenzione

Serge Carfantan

Traduzione a cura di Colette Orsat

           La coscienza nasce nell’attenzione e scompare nell’inattenzione. Se un uomo vive nella disattenzione, non vive all’altezza delle possibilità della coscienza, rimane solo alla superficie della vita, o non fa che sopravvivere: è incosciente. Vivere deliberatamente è vivere nel fuoco dell’attenzione e non vuole dire altro che vivere lucidamente. Gli atti mancati segnalati da Freud non possono manifestarsi se non nell’inattenzione. Se la nevrosi può essere definita come una vita segnata dall’atto mancato, è perché in essa la coscienza è in deficit di attenzione. Se la salute mentale può essere definita a partire dall’atto compiuto, è perché suppone una mobilitazione dell’attenzione.

           La coscienza pone l’attenzione nel presente, a differenza della ritenzione del ricordo che segna la relazione al passato e della tensione dell’attesa che tira la coscienza verso l’avvenire. Così, il tempo psicologico del ripiego nel passato o della fuga nell’avvenire erode l’attenzione al presente e fomenta la sua dissoluzione. L’identificazione al tempo è quell’operazione della mente che genera un altrove e un altrimenti e vela l’attenzione all’adesso, alla presenza. Il presente del presente diceva Sant’Agostino è l’attenzione.

           Osserviamo quindi quanto coscienza e attenzione non siano separabili e quanto si possano persino confondere. Ma la coscienza può essere definita dall’attenzione? La caratteristica dell’attenzione non è forse di portarsi maggiormente sull’oggetto piuttosto che sul soggetto? Non si fa sempre attenzione a qualcosa? C’è nell’attenzione un necessario oblio di sé in favore dell’oggetto? Per riprendere una formula usata in queste lezioni: come si può parlare di attenzione senza oggetto?

  1. ATTENZIONE E CAMPO DI COSCIENZA

        È importante individuare la relazione tra attenzione e campo di coscienza.

  1. La tesi secondo la quale l’attenzione trova il suo fondamento nell’intenzionalità si spiega così:

           La coscienza è simile a un pennello luminoso che scaturisce dal soggetto e si dirige verso un oggetto che fa parte del suo campo di coscienza. Ciò che limita il pennello luminoso, ciò che orienta il suo raggio e permette che la coscienza si porti su un oggetto piuttosto che su un altro può essere chiamato attenzione. Con la parola oggetto possiamo intendere tutto ciò che può essere presente nel campo di coscienza. Un oggetto può indicare una cosa. In questo caso, la luce della coscienza usa il canale dei sensi, e nella percezione cosciente, fa riferimento prima di tutto a quello che il pensiero identifica come oggetto: l’ombrello posato contro il muro, il gatto addormentato sul davanzale della finestra, il tagliacarte di Sartre sulla scrivania, o il cubo di Alain.  È il tipo privilegiato di intenzionalità descritto a lungo da Husserl fondato sulla relazione soggetto-oggetto.

              La coscienza intenzionale è mirata. Non si confonde con il campo di coscienza, si sposta con lui, lo percorre, eventualmente tenta di afferrarlo con un solo sguardo. Il mondo-della-vita è lì, inesauribile, e si estende nello spazio. Il campo di coscienza è la finestra su un mondo aperto a tutte le coscienze poste in stato di veglia. Il raggio luminoso non crea nessuna suddivisione. Illumina solamente. Ciò che è sotto la luce appartiene alla consapevolezza. Ciò che è nell’ombra ma potrà essere illuminato è chiamato subconscio. Naturalmente non esiste un confine tra l’uno e l’altro, poiché uno spostamento dell’attenzione può mettere sotto la luce ciò che era nell’ombra. Il campo di coscienza non manifesta nessuna barriera, nessuna divisione reale. Se si possono avere barriere o divisione, è solo per un atto proprio del pensiero.

              Il campo di coscienza è limitato. Non possiamo avere coscienza di tutto. La nostra finestra sul mondo si apre sull’infinito, ma è piccola. Siccome il limite della nostra coscienza confina con il campo, la sensazione ci si estende e si diffonde. Noi sentiamo molto al di là di quelloche percepiamo.

Possiamo rendercene conto fino nei fenomeni di sincronicità. Allora la mente interviene per appropriarsi gli oggetti e crea un soggetto per il quale le esperienze formeranno una sorta di sostanza a parte. Saranno le mie esperienze, il punto di vista sarà il mio punto di vista. Il soggetto sovrimposto si chiama l’ego. In realtà c’è solo l’esperienza che prova sé stessa. Allo stesso modo, siccome l’ego esiste solo sullo sfondo della memoria, reagisce a ciò che è, filtra l’esperienza presente e l’interpreta servendosi come referente dell’esperienza passata. Ci mette del “mio”. Possiamo, per conservare la nozione di campo, dire che questa sedimentazione è in qualche modo la struttura geologica del campo di coscienza.

                Si spiega così come il dominio della percezione è fortemente intellettualizzato, al punto che certi autori, come Sartre, abbiano messo in dubbio l’esistenza della sensazione. Tuttavia, quando l’attività mentale che consiste nell’identificare e nominare è sospesa, la percezione cambia qualità e diventa più sensibile, naturalmente contemplativa. La coscienza si apre nella presenza. L’attenzione panoramica indica l’espansione che abbraccia il campo di coscienza, si fonde in lui nell’eco sensibile della presenza. La presenza torna sempre verso la sensazione. Non è certo il modo abituale, “normale” di percepire. Il modo normale di percepire consiste nel mitragliare il campo di coscienza con concetti e operare continuamente una sintesi d’identificazione. Riconoscere l’oggetto che cerchiamo, il dettaglio che aspettiamo nel comportamento dell’altro, il punto di riferimento mentale che ci è utile in un luogo sconosciuto etc. sono le forme più comuni di percezione. Siamo molto più intellettuali di quanto vogliamo riconoscere. Proprio quando ci immaginiamo che le nostre impressioni siano più vive, o quando ci crediamo sensuali, è spessissimo là che il condizionamento della mente dà il massimo, cioè quando siamo più reattivi. L’attenzione panoramica è veramente di qualità diversa e bisogna riconoscere la sua importanza, particolarmente nell’estetica.

  • Se il termine oggetto di consapevolezza non designa solo la cosa percepita è perché ciò che trattiene la nostra attenzione può benissimo non situarsi all’esterno.

Il corso dei nostri pensieri, soprattutto quando diventa compulsivo, può mobilitare da solo la nostra attenzione a tal punto che il campo della percezione diventi completamente insignificante. Basta che mi metta a raccontarmi le storie mie nella mia testa perché la mia attenzione sia convogliata verso i miei pensieri. Ci si sbaglia completamente quando si pensa che l’uomo comune è “irriflessivo” e “incosciente” perché sarebbe perso nelle cose esterne. Grave errore. È il contrario. È incosciente e irriflessivo nella misura in cui è perso nei propri pensieri, aggrappato a un’attività mentale costante che lo rende assente al mondo reale. Quando mi perdo nel mio mondo che cosa mi dice il mio interlocutore? Dal punto di vista di un osservatore esterno, sono diventato inattento ed è per quello che il riflesso dell’osservatore sarà di richiamare l’attenzione: “Mi ascolti o sogni?”. Il richiamo dell’attenzione significa tornare qui e ora, nella percezione; ciò vuole dire che per un momento non ero più qui. Sant’Agostino mostra in modo approfondito come l’attenzione sia inseparabile della percezione, come la percezione è inseparabile della presenza. Fin quando abbiamo un po’ di buon senso, sentiamo che, in effetti, l’attenzione vera va di pari passo con la percezione. Allo stesso modo, l’irruzione del tempo psicologico e l’identificazione della coscienza alle dimensioni temporali allontana l’attenzione al presente.

 Da qui una proprietà notevole. C’è una stretta relazione tra la qualità dello stato di veglia presente nella percezione e la natura dell’attenzione. In uno stato di stanchezza, quando il livello di vigilanza diventa molto basso, la luce del cono dell’attenzione diventa debole e certamente, si può dire che il cerchio disegnato si restringe. Al contrario, quando l’acuità della coscienza aumenta, per esempio quando siamo minacciati da un grave pericolo, i nostri sensi sono di colpo in allarme. Il chiacchiericcio mentale abituale tace. Siamo di colpo messi in allarme, come il gatto che spia un topo. Non solo la luce della coscienza è più viva, ma il cerchio del campo di coscienza si apre, per perdere i suoi limiti. L’attenzione si mobilita per la situazione di esperienza con una rara intensità. Il pericolo indice l’insorgere dell’attenzione. Elimina il torpore presente nella coscienza abituale. È in quel momento che la parola presenza prende senso. Così possiamo dire che la presenza è aumentata dall’intensità dell’attenzione e questa intensità non è in nessun caso separabile dallo stato di veglia. Quando la vigilanza è a un livello superiore, quando la dualità soggetto-oggetto cessa di dominare e la coscienza di sé si manifesta insieme alla coscienza del mondo, in un unico fuoco interno, parliamo di lucidità. Ciò che è notevole nella lucidità è l’attitudine dello spirito a stare in allerta e immobile, in uno stato in cui l’intelligenza è sveglia e il senso dell’osservazione è portato a un massimo livello. Al contrario, quando la lucidità viene a mancare e la vigilanza è indebolita, basta uno stimolo della natura compulsiva, perché l’attenzione diventi frammentaria, instabile e agitata. Il risultato è che l’attenzione salta di continuo da un oggetto all’altro e diventa incapace di posarsi su qualcosa. Per dirlo in un altro modo: l’agitazione mentale, sotto forma di pensiero compulsivo, o anche di continuo conflitto interno alla ricerca di un nuovo stimolante, si sviluppa in un certo livello di assenza e indebolimento generale della vigilanza. Ne consegue un’incapacità compulsiva a porre l’attenzione, segno dell’incoscienza.

  • PERDITA E RISVEGLIO DELL’ATTENZIONE

La parola attenzione viene dal latino attentio, che deriva dal verbo attendere che significa “rivolgere lo spirito verso”. La definizione usuale dell’attenzione è uno sforzo di concentrazione su qualcosa o qualcuno. È un errore, perché pone l’attenzione sull’oggetto, implica una forte dualità, (da qui l’idea del pericolo al quale bisogna far fronte rapidamente), infine, parte dalla concentrazione per

spiegare l’attenzione, mentre è vero il contrario. Vediamo perché l’attenzione è una qualità della coscienza del soggetto, perché non implica necessariamente uno sforzo e perché è lei che rende possibile la concentrazione.

  1. Prendiamo la questione a rovescio, esaminando in quale modo l’attenzione svanisce.

L’attenzione si indebolisce quando insensibilmente cade nell’incoscienza. Se dovessimo porre un marcatore sul disegno che rappresenta l’analogia del lago, con i diversi livelli cosciente-subcosciente-incosciente, potremmo dire che è a livello cosciente nello stato di veglia, a livello subcosciente nel sogno e a livello inconscio nel sonno profondo. Partendo da qui, possiamo capire cos’è la destrutturazione dell’attenzione, osservando ciò che si produce nello slittamento tra stato di veglia e stato di sogno. Fin a quando la vigilanza è presente, il soggetto conserva la propria disponibilità e l’attenzione può essere guidata, compreso quando lotta contro la stanchezza. Nella caduta nel sonno, ciò che il soggetto perde per primo, è l’attitudine a mantenere e dirigere la propria attenzione. Le esplosioni di immagini che appaiono nel sogno sembrano implacabilmente metterlo in posizione di identificazione con l’oggetto.  La coscienza allucinata del sogno si perde nel saltellare caotico delle immagini, viene proiettata sullo schermo del film mentale. Rinchiusa nell’immaginazione onirica, l’attenzione è sospesa. Niente più testimonianza, né presenza di sé, quindi niente attenzione. Nella sua Conférence sur le rêve, Bergson è particolarmente chiaro a questo proposito. Vegliare e volere, volere e essere attenti sono la stessa e identica cosa secondo lui. Il sogno è precisamente quel momento in cui la tensione della vigilanza finisce. Questa distensione è la fine delle preoccupazioni della vigilanza e la messa in sospensione dell’attenzione. Il sognatore si disinteressa del mondo reale e là dove non c’è interesse verso il mondo percepito, non c’è neanche attenzione.

  1. Notiamo che è possibile riprodurre artificialmente queste condizioni di frammentazione dell’attenzione all’interno di uno stato di veglia. Prendiamo un bambino davanti alla televisione, con l’eccitazione emozionale di un divertimento, degli spot pubblicitari, delle serie o dei film d’azione. (Mentre ci siamo, con più schermi contemporaneamente). È una specie di polverizzazione dell’attenzione. Possiamo dire: sogno accessibile ad occhi aperti. I canali commerciali sanno produrre una compulsione, un’agitazione mentale costante simile al susseguirsi delle immagini oniriche. E se ciò non basta, le consolle dei bambini, i giochi video di azione per i più grandi producono lo stesso effetto. A ragione di quattro ore al giorno in media, questo modo di condizionamento ha certo un’influenza diretta sull’attenzione. L’esistenza mediatica viene sollecitata in un unico senso: quello della dissoluzione dell’attenzione in “qualcosa che si muove”. Un clip divertente, un rodeo con le macchine, un inseguimento sotto gli spari delle armi da fuoco, ragazze che sculettano a ritmo di musica, etc. È il momento di “relax” in cui ci si può, con gli occhi sbarrati, disinteressare del reale e lasciare che l’attenzione sia assorbita in modo ipnotico dallo spettacolo.

          Se, ogni tanto, il soggetto riesce a distogliersi dallo schermo, non ritrova immediatamente una capacità di attenzione completa. L’eccitazione mentale perdura. Con l’abitudine e la dipendenza, diventa difficile porre la propria attenzione su qualcosa se non con uno sguardo distratto. Difficile concentrarsi a scuola! In testa, ci sarà sempre la propensione a fare zapping: le pagine del libro, le lezioni, i compiti scritti, le parole nel linguaggio. Al limite, il drogato dell’immagine non si trova mai più nel qui ed ora. Ha sempre la mente altrove. In realtà è in attesa del momento successivo, in attesa di un futuro: quello della confusione con l’immagine, della confusione con l’eccitazione virtuale, quindi è distratto e in genere si annoia. Quando l’attenzione è debole, la percezione è spenta, la propensione alla fuga è grande. Aggiungiamo che, dal fondo di questa miseria sensibile, il ricorso all’alcool, alle droghe, andrà evidentemente nella stessa direzione: destrutturare ancora di più l’attenzione.

  • Meno drammatico, eppure altrettanto preoccupante: la divisione dell’attenzione. È consigliabile non correre due lepri alla volta. Non si può fare bene una cosa se non le si dà un’attenzione completa. Quando si fanno due cose alla volta, si fanno male. La divisione dell’attenzione indebolisce la mente e dà in pratica solo risultati inferiori a ciò che sarebbe un investimento totale, appassionato dell’attenzione in un lavoro. Per un certo periodo, alcune fabbriche hanno tentato di mettere un sottofondo musicale sulle catene di montaggio. Ma se l’operaio ascolta, perde una parte dell’attenzione in quello che fa e non lavora bene. Il risultato è stato un calo della produttività e questa pratica è stata abbandonata.

Ma con le nostre tecnologie, la divisione dell’attenzione è riapparsa in modo individuale. Viviamo in una società molto rumorosa. È difficile trovare un bar in cui non si debba sopportare una televisione accesa o la radio. Molte persone lavorano con la mente divisa, sollecitata da altri oggetti. La maggior parte degli adolescenti studia a casa ascoltando musica. Sopportano male il silenzio e lo colmano subito con il rumore. Risultato: la mente non è mai completamente rivolta allo studio e neanche all’ascolto della musica, ciò produce una tensione costante, una nervosità epidermica e mina l’attenzione dall’interno. I luoghi dello studio impediscono un raccoglimento e invitano alla divisione: le finestre integrali aperte sull’esterno sono una sollecitazione costante ad abbandonare lo studio in corso. Altro esempio abituale: il telefono cellulare: l’oscillazione tra l’essere qui ed altrove allo stesso tempo. Infine, ricordiamoci anche ciò che abbiamo detto a proposito della lucidità: una mente divisa tra un funzionamento inconscio e una volontà cosciente non può mai essere a suo agio ed è soggetta agli atti mancati.

  • Più generalmente, nella nostra vita quotidiana, la coscienza è discontinua, presenta dei “buchi”, delle assenze che rilevano dell’inattenzione. È la principale causa degli errori, degli incidenti, e delle imperizie. Gli atti mancati freudiani. Se cambiamo il neonato sul fasciatoio e ci allontaniamo pensando ad altro, c’è il pericolo che possa cadere. Al contrario, se sbucciamo la verdura con una mente non divisa, ponendo attenzione, ci saranno poche probabilità di tagliarsi. Vivere in piena coscienza protegge dai pericoli. Nell’attenzione c’è una sorta di prescienza che ci avverte del pericolo. Quando la vigilanza presenta dei buchi, delle assenze, non sappiamo più rispondere alla realtà.
  • Se l’attenzione è un richiamo che invita a rivolgere la mente verso, è soprattutto un richiamo indirizzato a una mente che è altrove, persa nei suoi pensieri, agitata, sparpagliata o trascinata in una reazione, o che non guarda nel posto giusto. Porre l’attenzione verso vuol dire uscire dalla nebbia, dall’agitazione mentale abituale, mobilitare la propria coscienza, quindi essere maggiormente centrati, presenti a ciò che è.
  • Da Descartes a Alain, passando da Maine de Brian e Bergson, il volontarismo ha spesso posto a monte dell’attenzione la tensione di uno sforzo imposto dall’intelletto e il prolungamento di un giudizio in un atto. Uno sforzo volontario. La ragione ne è il modo imperativo, quasi disciplinare con il quale interpretiamo l’attenzione nel comportamento naturale. Al maldestro diciamo: “Fai attenzione!”. È un comando, un ordine. Lo schiocco della frusta. Stare in guardia, mettersi interiormente sull’attenti e sorvegliare ciò che si fa senza distogliere l’attenzione. Tuttavia, la volontà e lo sforzo non sono identici. L’attenzione non si riduce alla volontà e allo sforzo, li precede. È più un’intelligenza che si applica che uno sforzo che si perpetua. Ciò che sollecita l’interesse, ciò che risveglia l’intelligenza mobilita subito l’attenzione.
  • Succede anche, in una sensazione viva, che sia la presenza di ciò che è che attrae la nostra attenzione. Un violinista che suona nella metropolitana. Ad un tratto l’attenzione diventa estrema, la mente tace, siamo lì, estremamente presenti. L’ascolto oltrepassa il quadro di un solo senso. Risuona completamente nel corpo ed è immanente al luogo. Il fascino della musica attrae l’attenzione, perché l’attenzione è naturalmente attratta dal bello. In questo non c’è nessuno sforzo e tuttavia lo stato di attenzione è lì, solido, compatto, reale, intenso, pieno della vitalità che è attenzione alla Vita. Riassumendo, ciò che si manifesta è una forma di supercoscienza, in confronto alla coscienza abituale. Eppure è un’attenzione involontaria. In realtà non è tanto l’oggetto che conta nell’attenzione quanto la qualità e l’intensità della presenza del soggetto.

Simone Weil scrive a proposito dell’attenzione:

La maggior parte delle volte, si confonde l’attenzione con una specie di sforzo muscolare. Se si dice agli allievi: “Adesso farete attenzione”, si vede che aggrottano le sopracciglia, trattengono la respirazione, contrattano i muscoli. Se dopo due minuti si chiede loro a che cosa fanno attenzione, non possono rispondere. Non hanno fatto attenzione a niente. Non hanno fatto attenzione. Hanno contrattato i muscoli. Si spreca spesso questo genere di sforzo muscolare nello studio. Siccome ci si stanca si ha l’impressione di avere studiato. È un’illusione” (1). Cos’è necessario perché l’attenzione sia presente se non lo sforzo?

 Risposta di Simone Weil:

L’intelligenza può essere guidata solo dal desiderio. Perché ci sia desiderio, ci vogliono piacere e gioia. L’intelligenza cresce e dà frutti solo nella gioia. La gioia di imparare è tanto indispensabile allo studio quanto la respirazione ai corridori. Quando è assente, non ci sono studenti, ma povere caricature di apprendisti che, dopo l’apprendistato, non avranno neanche un mestiere. È questo ruolo del desiderio nello studio che permette di farne una preparazione alla vita spirituale” (1).

Dove c’è desiderio di imparare, c’è anche entusiasmo e passione. Contrariamente a quello che si crede di solito, la gioia e il piacere non sono della stessa natura dello sforzo di volontà. Ciò che si fa con gioia e piacere non viene da una costrizione esterna o da una costrizione che ci imponiamo a noi stessi. Nello studio, la gioia e il piacere coinvolgono naturalmente l’attenzione e sollecitano una energia nuova che non è sentita come “sforzo” nel senso dispregiativo del termine, cioè uno sforzo contro sé stessi, per “sforzarsi a”, per disciplinarsi. Attenti, non è che la disciplina sia senza valore, ma è naturale per chi si investe con passione in quello che fa. È la mente che produce una dualità, una contraddizione tra il qui e ora in cui l’attenzione dovrebbe essere coinvolta e un altrove… in cui potrei fare altro!

Ne consegue che ciò che è soprattutto favorevole all’attenzione è il silenzio del pensiero, lo stato di apertura o di vacuità, che mette l’intelligenza in condizione di ricevere:

 “L’attenzione consiste nel sospendere il pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto e mantenere in sé, vicino al pensiero ma a un livello inferiore e senza contatto con esso, le diverse conoscenze acquisite che siamo costretti a utilizzare. Il pensiero deve essere, in confronto a tutti pensieri particolari e già formati, come un uomo su una montagna che, mentre guarda davanti a lui, scorge sotto di lui, ma senza guardarle, molte foreste e pianure. E soprattutto il pensiero deve essere vuoto, in attesa, non cercare niente, ma essere pronto a ricevere nella sua verità nuda, l’oggetto che vi penetrerà”.

Solo quando l’intelligenza è completamente aperta e silenziosa, è sveglia e può scaturire un interesse profondo. Una mente caratterizzata da pensieri turbolenti è agitata e rumorosa. È incapace di attenzione. È precisamente nel momento in cui l’attenzione è più viva che la mente è completamente silenziosa, in un ascolto libero da ogni pensiero. In altri termini: quando vi è la totale disponibilità nel qui e ora, l’attenzione è libera.

  • – Simone Weil, Attente de Dieu.