Il mito del controllo di sè seconda parte di Albert Low.

Albert Low3ème Millenarie n. 65 – Traduzione di Luciana Scalabrini – seconda parte

Il ruolo della sofferenza.

Questa può continuare a lungo. Dopodiché vedrò la situazione: o sopporterò uno stress indicibile per la mole di lavoro impossibile di cui dovrò caricarmi, o mi ritirerò completamente nell’immaginazione fino a diventare pazzo.

Allora, per stabilizzare la situazione cominciamo a maturare. La maturità significa per me che riconosciamo di non potere rivendicare d’essere il centro del mondo, indipendentemente dalla nostra sensazione di essere o no il centro del mondo. Accettiamo perciò un compromesso incorporando nella nostra vita il dolore d’essere esclusi dal mondo.

Questo dolore si manifesta nella depressione, l’ansia, la collera, il furore ecc. La nostra vita consiste nel mantenere e sopportare un certo livello di sofferenza. Manteniamo questo livello facendo della sofferenza una parte della sensazione di sé.

Con il tempo, essendo la sofferenza una sensazione molto più forte delle altre, diventa il modo principale attraverso cui accentuiamo la sensazione di sé. Oggi siamo chiusi nella sofferenza. Per sbarazzarcene, dobbiamo lasciar andare la sensazione di sé, ma in questo caso dovremo soffrire. E’ il classico cerchio vizioso, non c’è modo d’uscirne. Gurdjieff diceva che l’ultima cosa che la gente abbandona è la sofferenza.

Quello che diremo aiuta a capire perché.

Mi rendo conto che le mie parole semplificano al massimo i numerosi aspetti della condizione umana. Perciò possono sembrare un pò ciniche. Non ho intenzione di ignorare le diverse implicazioni di ciò che significa essere umano o essere cinico, una sorta di masochismo spirituale. Vorrei solo tracciare uno schema generale per affrontare la nostra questione.

Gli errori commessi nella pratica.

Perché praticare? All’inizio, speriamo di avere di nuovo l’impressione di controllare la nostra vita, cioè di accentuare questa impressione, ma senza lo stress e la sofferenza del passato. Speriamo di diventare capaci, come direbbe M.Eliade, d’essere il centro del mondo senza sforzo, speriamo di tornare in Paradiso. Poi ci danno un esercizio, come seguire il nostro respiro. Una grande importanza è data al verbo “seguire”. Diciamo ai principianti: “Ci sono molti errori che farete: il primo sarà provare a controllare il respiro, il secondo è osservare la respirazione”. Il primo errore, voler controllare, si fa quando si comincia la pratica con la speranza che ci aiuterà a ritornare in Paradiso, cioè a ritrovare la sensazione di controllare senza sforzo. Il secondo, osservare semplicemente la respirazione, ci permette di astrarci dal dolore dell’esistenza. E’ un pò come quando si guarda un film troppo violento. Diminuiamo la nostra identificazione con ciò che succede dicendoci: “non è che un film”. Nello stesso modo ci ritiriamo dalla vita, ci teniamo lontano, al di sopra delle questioni dell’esistenza, dicendoci che non è che un sogno o un’illusione… Molti cosiddetti maestri lo fanno. In più si commette un altro errore differente: invece di seguire la respirazione, si segue l’idea di seguire la respirazione. Si sogna o si immagina di praticare.

Se i primi due sono errori di “lavoro” quest’ ultimo è un errore d’ “immaginazione”. Spesso le persone amano l’idea della visualizzazione, come sentire una corrente d’amore, di pace, di andare e venire. Tutto ciò non fa che accrescere l’attività dell’immaginazione e la pratica è una perdita di tempo, o peggio ancora incoraggia a ritirarsi nell’immaginazione.

La pratica è come una battaglia.

Ma ecco, ci dicono di seguire la nostra respirazione. Perché questa insistenza sul seguire la respirazione, perché insistere sul farlo senza scopo né aspettative? Perché possiamo lasciare andare la sensazione di controllare. Si può dire così: vivere per un istante senza la sensazione di sé. Significa che la pratica va nella direzione opposta ai nostri desideri naturali. Se seguiamo davvero la nostra respirazione e ci si dice sempre che è la direzione in cui andare, allora dobbiamo abbandonare la sensazione di avere il controllo. “Questo” respira, come “questo” cammina, parla, mangia ecc. E però vogliamo continuare ad avere la sensazione di controllare. S’ingaggia una lotta tra il nostro desiderio di avere il controllo e quello di lasciar andare la nostra sofferenza. Più grande è la nostra fede nella possibilità di un controllo senza la sensazione d’avere il controllo, situazione in cui io sono lo strumento e non l’autore, più facile sarà la pratica. E’ qui che l’insegnamento diventa importante. Ci si dice che “Quello” è sotto controllo. I cristiani lo chiamano Dio, i buddisti la natura di Buddha, i vedantici il Sé o l’“Io sono”. Qualunque sia il suo nome, è al di là di essere qualcosa, al di là dell’essere o non essere, e perciò al di là del bisogno della sensazione di sé.

Quando si lavora su un koan come: “com’è il mio viso prima della nascita dei miei genitori? (Chi sono io?)”, si lavora per permettere a “Quello” di avere il controllo senza il bisogno della sensazione di avere il controllo, d’intervenire. Devo dire che la parola “Quello” è utile qui solo come procedimento grammaticale. Non c’è “Quello”, come diceva il sesto patriarca Zen Hui Meng: “All’inizio, non c’era nulla”

Molti cristiani lavorano con me sul koan “sia fatta la tua volontà”. All’inizio per molti Dio, la natura di Buddha ecc, sono  sinonimi di “io” e la pratica prosegue lungo l’antico modo d’essere. In realtà, “sia fatta la tua volontà”, deve essere interpretata come “la mia volontà deve essere fatta”. E di tanto in tanto, se la persona è sincera, affiora una certa verità. Se possiamo lasciare esprimere questa verità nell’istante, dirà: “non è necessario che controlli il fatto di controllare” oppure “è giusto per Dio, la natura di Buddha ecc. “avere il controllo”.

Ma è una lotta. Appaiono sempre dei pensieri per dissipare la tensione che arriva durante la lotta. Spesso si è così persi in questi pensieri che ci si scoraggia e ci si domanda se vale la pena di fare questo sforzo. Inoltre, quando si “progredisce” nella pratica, si diventa più ansiosi, più depressi, più collerici o più tesi. E’ evidente, dal momento che si realizza che progredire nella pratica significa rinunciare sempre di più alla sensazione di avere il controllo. Queste  tensioni e pensieri negativi appaiono allora nello sforzo di ristabilire  la sensazione di sé. Si comincia a rimettersi in discussione davvero: “più pratico, più è viva, a un certo livello, la mia sofferenza”.

Non sorprende allora che la percentuale di rinnovamento dei praticanti sia molto, molto importante. Ho parlato a migliaia di persone e migliaia hanno iniziato un pratica. Ma al centro Zen di Montréal non abbiamo che duecento membri al massimo, e, tra loro almeno la metà non ci sarà entro un anno, e, tra quelli che resteranno, un’altra metà ci avrà lasciato tra cinque anni.

Sofferenza, sofferenza.

Però, lontani dallo scoraggiamento, questa constatazione è rassicurante, perché lascia affiorare una autenticità nella nostra azione. E’ triste veder partire queste persone mentre soffrono. Ci vorrebbe un mezzo per dare loro “solo la speranza, o la disperazione sta nella scelta tra il rogo e il rogo, d’essere salvati dal fuoco con il fuoco” come scrive T.S. Eliot, o ancora “se sapeste come soffrire, avreste il potere di non soffrire” come è detto nell’Inno di Gesù apocrifo.

Ma se si può parlare molto, non si può fare molto per l’altro: si può portare il cavallo all’abbeveratoio, ma non si può farlo bere. Per salvare la vostra vita, dovete perderla. Significa che dovete perdere la sensazione di voi stessi e l’impressione di controllare. Ritornando alla respirazione, senza lamentarsi, senza protestare, senza identificarsi alla sconfitta o alla riuscita, si perde progressivamente il controllo e si permette al “Vero Sé” i manifestarsi. E’ una lotta che si deve condurre senza giudizi, senza la sensazione di andare da qualche parte. Giovanni della Croce diceva “non sperate perché la speranza sarebbe sperare nella cosa sbagliata”. Si potrebbe dire:” non aspettate qualcosa, perché aspettereste la cosa sbagliata”. Una delle cose migliori per aiutarsi è di lavorare con un maestro autentico. Se non ne conoscete, leggete dei libri, andate a conferenze, che rinnoveranno la fede in “Quello”, in Dio, in Buddha. Un’altra via è di lavorare con un gruppo, come partecipare a un ritiro, dove si è obbligati ad affrontare se stessi,ad affrontare l’immaginazione e le sue conseguenze. Che la pratica sia cristiana, buddista, sufi o indù, una vera pratica deve essere molto dura, cercare un insegnamento o un insegnante che faccia il lavoro per voi o che vi lasci credere che potete salire in Paradiso facilmente, è perdere tempo prezioso.

Allora perché praticare?

Le persone che restano davvero sulla via, in particolare quelle che “sentono” la loro vera natura e che prendono coscienza della sicurezza, dell’amore e della libertà meravigliosa che porta l’apertura a ciò che è, non hanno alcun dubbio. Anche  se paradossalmente avessero grande difficoltà a dir quello che hanno conquistato grazie alla loro pratica. Quando siete malato, desiderate molto sentirvi meglio, ma quando state bene, seguite il vostro cammino. Non state a dire:”sono felice, non sono più ammalato!” Potete farlo per un momento, ma presto o tardi, lasciate andare tutto questo. Il Maestro Zen Dogen diceva che una persona risvegliata non sa di esserlo. Qual è il prezzo? Lasciatemi citare Eliot di nuovo.  Diceva che è “una condizione di semplicità completa. Costando meno di niente”