Tradizione, modernità e..al di là di Kenneth White

(dal n° 5 dell’antica serie di e3millenaire, a cura di Luciana Scalabrini)

«Come sfuggire a questa epoca moderna e reimparare a respirare»

(William Carlos Williams)

Poeta. Scrittore e appassionato a tutte le tradizioni, Kenneth White propone in questo studio di realizzare una felice sintesi di tutti gli insegnamenti disponibili, sia dell’estremo oriente, del celtismo, del giudaismo o del cristianesimo. Se vuole, l’uomo può progredire e sviluppare la spiritualità, che tanto gli manca.

Ecco una grande città moderna.Cos’è che colpisce? La circolazione. Energie individuali, idee? No. Automobili. Non insistiamo sugli scarichi nocivi, ma soprattutto sul fatto che viviamo sotto la dittatura di un enorme sistema tecnologico, mostruoso e monotono. Uno storico della cultura delle città, Lewis Mumford, chiama questo una cacotopia. È questo, e non un’utopia, quel sogno che l’occidente insegue fin da Platone. E nello stesso ordine d’idee, ma con un linguaggio più crudo, qualcuno ha detto che la modernità è molto semplicemente della merdonità.

Gigantismo. Sovrappopolazione. Logica riduttiva. Disfatta. Collasso. Ambiente deteriorato. Effetto dinosauro. Falso progresso Rapida degradazione. Polluzione
Saturazione. Necrosi. Uomo unidimensionale. Entropia. Crescita cancerosa…

Allora, che fare?

Penso a una frase di Valery nei suoi quaderni: “ Non c’è che una cosa da fare: rifarsi. Non è semplice”.

E penso ad un altro passaggio sempre nei quaderni,dove evoca quei monaci medievali che, constatando la fine di una civiltà, si isolavano e scrivevano degli immensi poemi.    Per nessuno, ma chissà….

Lo scopo sarebbe dunque questo, provare a mantenere e sviluppare una vita completa e un’azione sovrana, cioè non subordinata a dei programmi utilitari immediati, ma a misura dell’uomo e del mondo in cui ci si trova ad essere, questo mondo che abbiamo perduto costruendo le città.

Isolarsi, più o meno, in vista di un mondo che non sia né mondano né immondo; e comunque preferisco l’immondo al mondano: il puro è più vicino all’impuro che allo sterile.

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Disfarsi per rifarsi

Si può ,bisogna essere lucidi, rendersi conto di tutte le difficoltà, della massa di mediocrità, coltivata o no, e peggio, della potenza della mediocrità, ma questa non è una ragione per rifugiarsi nel piacere pigro o per fare un suicidio intellettuale. Ci sono ancora delle possibilità.

Da adolescente pensavo spesso a quel passo di Camus un po’ troppo patetico per il gusto attuale, ma non importa, occorre ricordare quei testi che hanno potuto illuminare una strada:

«Quando abitavo ad Algeri, pazientavo sempre in inverno perché sapevo che una notte, una notte fredda e pura di febbraio, i mandorli della valle dei Consuls si sarebbe coperta di fiori bianchi… Non è un simbolo. Non avremo la felicità coi simboli.  Bisogna essere più seri… La meditazione sul loro esempio mi insegna che se si vuole salvare la mente, bisogna ignorare le proprie caratteristiche lamentose ed esaltare la propria forza e le proprie possibilità di riuscita. Questo mondo è avvelenato dal dolore e sembra compiacersi di questo. È tutto dedito a quel male che Nietzsche chiamava spirito di iniquità. Non abbandoniamoci a questo. È inutile piangere sulla mente, bisogna lavorare per lei.»

Ritorniamo alla nozione di rifarsi.  Per evitare ogni attaccamento a dei valori e a delle virtù mi sembra che questo ri- farsi debba passare per un dis- farsi, e ciò non implica una disfatta, ma una dissoluzione.

In una delle più celebri profezie apocalittiche sul XX  secolo, William Yeats così si lamentava : “ Le cose si disintegrano, il centro non può tenere, l’anarchia è nel mondo”. “ Ma a volte una società si disintegra liberando energie. E ciò che può sembrare anarchia dal punto di vista del centro ben assestato di una cultura può essere la nascita difficile di un nuovo ordine sociale che domani sarà più umano. Esistono forme di disintegrazione creative”( Roszak)

Non pensiamo troppo presto ad un ordine sociale nuovo, consideriamo quelle liberazioni di energie. Una delle più importanti si rifà a Nietzsche. Egli dice molte cose di cui la maggior parte sono di un’importanza primordiale e mondiale, ma ciò che conta è questa danza d’energia, che rinasce e rinvigorisce da se stessa.

Nietzsche,è il possibile. Né l’essere, né il nulla: il possibile, che si presenta sotto le apparenze della molteplicità, della turbolenza, perché nessun concetto lo contiene, nessuna etichetta lo definisce. Caos, direi. L’idea diviene femminile, dice, liberata dai dettami socio- morali, la vita e il pensiero, la vita del pensiero e il pensiero della vita diventano un capolavoro sconosciuto.

“Il vecchio maestro non ha sfrondato”, scrive Michele Serra a proposito del pittore del capolavoro sconosciuto nel romanzo di Balzac, non ha sfoltito la sua incertezza, l’ha lasciata abbondare il più possibile.  Risale la pendenza, risale il tempo, vertiginosamente, ringiovanisce. L’uomo d’azione nasce vecchio e muore giovane, l’uomo d’azione rovescia il tempo. Riconoscerete il pensatore in chi va dalla verità ai possibili… Il vecchio folle è sulla via del segreto sconosciuto della vita… Noi ce lo auguriamo.

Penso a un altro vecchio pazzo uscito da tutta un’altra tradizione dell’eroe di Balzac, Hokusai, il maestro della vita fluttuante:

«Dall’età di sei anni, una strana mania di disegnare ogni sorta di cose si impadronì di me. A 50 anni avevo prodotto una quantità di opere di tutti i generi, ma nessuna mi lasciava soddisfatto. Il vero lavoro cominciò per me a 70 anni. Ora, all’età di 75, comincia a risvegliarsi in me un vero senso della natura. Per questo spero che che a 80 anni potrò avere una certa potenza di intuizione che si svilupperà fino ai  90 anni, in modo che all’età di cento anni potrò dire che la mia intuizione è quella di un vero artista. E se mi sarà concesso di vivere fino a 110 anni, credo che una comprensione viva e vera della natura splenderà da ciascuna delle linee, da ciascuno dei punti che traccerò…Invito quelli che vivranno così a lungo come me ad assicurarsi che mantenga la parola. Scritto all’età di 75 anni da me, chiamato Hokusai, il vecchio uomo pazzo di pittura»

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A nostra disposizione tutte le tradizioni

Quello che c’è di nuovo oggi è che abbiamo molte tradizioni a nostra disposizione, di cui l’una completa l’altra. Non siamo più obbligati  ad inserirci in una sola tradizione ma possiamo fare meglio; al posto di una linea, ne abbiamo molte, e se si usano bene, si sorpassano le culture nazionali sempre parziali. A quale tradizione abbiamo accesso? Dapprima a quelle che  costituiscono, globalmente, la tradizione occidentale, la tradizione giudaico- cristiana e quella greco- romana. Poi la tradizione hindu, la sino- giapponese, l’africana, l’islamica, l’amerindiana e la celta.

È certo che penetrare in una tradizione richiede un enorme lavoro. Come si trova nelle nostre società, ha poco a che fare con la sua forza originale , è ridotta a forme limitate e la nostra educazione è raramente una iniziazione.
E’ la poesia di ogni epoca  a mantenere il senso e la dinamica della tradizione, è la poesia a fare riconoscere e a fare irradiare quello che si chiama  la rete.

Per intraprendere e portare a buon punto un tale lavoro, bisogna essere un vecchio pazzo e bisogna cominciare da giovane. Hegel l’aveva detto: “ nell’epoca moderna la poesia si troverebbe confrontata ad una tale massa prosaica che non arriverebbe a  costruirsi un cammino “ Perché essere poeta in un tempo di mancanza?”, diceva Holderlin che, iniziato un tale lavoro, si trovava, come altri, in una situazione da diventare pazzo. Dopo tutto si può essere poeti con un costo minore, si possono fare delle parole incrociate superiori che a volte  si chiamano poesia moderna. E poi, nel nostro contesto culturale, non si chiama poeta quello che compone tre rime e due accordi di chitarra? T. S. Eliot, l’autore di uno dei grandi poemi della modernità, The Waseland, dice che se si vuole essere poeta dopo i 25 anni, cioè esprimere qualcosa al di là della propria persona, contentandosi di una vaga creatività, bisogna essere pronti  ad assumere il lavoro tradizionale e transtradizionale di cui ho parlato.Ma ancora una volta, perché essere poeta dopo i 25 anni? Venuto il momento, ci si può convertire a dei generi che richiedono meno energia intellettuale e nervosa: il romanzo per esempio.

Perché intraprendere un così duro lavoro? Ebbene, perché si crede, malgrado tutto all’educazione, alla cultura, ma soprattutto, per quanto strano possa apparire, per il piacere, un piacere che consiste nel sentirsi completamente fuori di sé e tuttavia legato al mondo. Penso a Nietzsche che cammina lungo la baia di santa Margherita, dove Zarathustra l’accompagnava e a ciò che dice nell’autobiografia Ecce Homo: “ Se si fosse il meno possibile superstiziosi, non si saprebbe come rifiutare la nozione che non si è che un’incarnazione, il medium di potenze superiori” e penso anche a Rilke, a proposito di quelle “giornate d’immensa obbedienza”e a quelle tempeste che ben conosceva, specialmente quando scriveva le elegie di Duino. Dopo quelle tempeste, c’è una sensazione di chiarimento assoluto e dei momenti di totale riconciliazione col mondo. E penso ancora a Rilke che, dopo aver terminato un lungo lavoro poetico, esce al chiaro di luna e accarezza, come se fosse un vecchio animale, i muri del piccolo castello Muzot. Ciò che fa sorgere l’immagine del vecchio John Cowper Powys che posa sotto la pioggia la sua fronte su una delle grosse pietre  coperte di licheni di Stonehenge.

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All’estremo punto della modernità, un deserto bianco.

L’uso delle tradizioni nell’epoca moderna è stato diverso. Per Eliot esse danno prima di tutto un riparo contro la mediocrità e la confusione; Pound ci cercava fuochi di energia; perso nelle megalopoli, Miller vi vedeva orizzonti paradisiaci. Yeats avrebbe fondato in Irlanda un’unità culturale nazionale con base nella tradizione celtica, ma avendo constatato amaramente  che  questa impresa si esauriva in discussioni e in realizzazioni sempre più mediocri,  preferì abbandonare quel progetto e preferì contemplare un viso di una giovane, un sasso o un frammento d0ossa portato dalla marea sulla sabbia…

In effetti,all’uscita, all’estrema punta della modernità, si apre e si estende uno spazio desertico, nudo e bianco. È come se si fosse bloccata la bocca e ritrovato uno spazio primitivo: George Bataille lo evoca in termini di deserto.

È nel deserto( montagna, landa, foresta o mansarda) che “quello succede”. Il lavoro postmoderno fondamentale si effettua così.

Là fuori c’è un mondo.

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