Acconsentire ai vuoti e ai pieni di Colette Nys-Mazure

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“Acconsentire ai vuoti e ai pieni” (Colette Nys-Mazure)
Leggiamo per l’ultima volta qualche brano tratto da Celebrazione del quotidiano di Colette Nys-Mazure:

“Adesione a sé. Ricordi precisi di momenti di pienezza. La gita in bicicletta lungo il fiume o l’entrata in acqua, con una sensazione acutissima di piacere fisico e morale di essere al mondo […].
Acconsentire ai vuoti e ai pieni, ai lati oscuri e a quelli chiari, alla parte sconosciuta di sé e a quella troppo nota, e perfino alla parte detestata. Esiste un modo di coincidere col proprio destino, una maniera di rassicurarsi: è la mia vita e l’amo, che ci fa risparmiare molte energie, che dispensa da vani combattimenti contro di sé e le proprie condizioni di vita più o meno soddisfacenti, ma dalle quale si può quasi sempre trarre profitto. Non sprecare nulla, in un volgare voler godere a ogni costo, ma vivere nella massima coscienza […].

[…] Colgo a piene mani l’istante che mi è dato di vivere. Il suo particolare profumo inebria le mia azioni molto quotidiane.

Senza temere i momenti di solitudine, propizi al raccoglimento per accogliere l’insperato. Senza tentare di sfuggirli attraverso le scappatoie della passeggiata, della televisione o del telefono. Più che la paura della noia o del vuoto si tradisce così il timore, l’inquietudine per ciò che potrebbe imporsi, rivelarsi nello spazio intatto. Chi può indovinare cosa sta per emergere quando si è in ascolto di se stessi?
Essere per se stessi una presenza amica. Coltivare uno spazio in cui raccogliersi per poter dare senza un ritorno su di sé, senza provare l’impressione d’essere svuotati, prosciugati. Lasciare uno spazio bianco che non si riempirà artificialmente con spese, acquisti, dolci, cure di bellezza o visite mediche. Donne permeabili, certo, ma sufficientemente forti e calme per non lasciarsi danneggiare. Un recinto all’interno del quale non si lascia entrare niente e nessuno che possa guastare o indurire. Essere una presenza, una presenza reale, un silenzio vero che ascolta piuttosto che uno specchio che riflette o un abisso che inghiotte.
Vi scrivo da una solitudine che vorrei tale. […]
Cadi, ti rialzi
. È un ritornello, a ogni età. Esprime lo sforzo, i fallimenti, le riprese. Sostiene senza negare né schiacciare. Non la ricerca della perfezione orgogliosa e testarda, del tutto o niente, ma l’apprendimento paziente e mai compiuto. Dipende dall’umiltà e dal coraggio. Celebra la caduta e il riscatto, l’errore e la redenzione, la fierezza della condizione umana. Il più delle volte l’ostacolo è dentro di noi: tracce di un’educazione troppo perfezionista; diffidenza, dubbio, apprensione; vergogna e scoraggiamento.
Ancor più delle cadute rovinose, avvertite come tali, le cadute leggere e insidiose, le sconfitte silenziose, il logorio. Il nemico è duro da smascherare. Erosione della sensibilità: il semplice piacere di essere si smorza e l’istante si scolora. Attorno a sé, la festa sembra continuare per altri. Una sensazione di solitudine, di estraneità accresce il disagio. Chi si preoccupa per me?
Si va nel giorno come un cieco brancolante, si teme ogni imprevisto perché non ci sente in grado di affrontarlo. […] Non sono più toccata dalla bellezza, dalla bontà, dalla grazia. […]
A ogni età, inspiegabili sensazioni di malinconia, saturazioni e vuoti. […] E allora, come celebrare il quotidiano? Esser presenti a se stessi, all’azione più modesta, quella di alzarsi, conscienti di essere vivi, di lavarsi la faccia, di prepararsi una tazza di caffè, di scegliere il colore del vestito da indossare, di mandare un augurio a chi festeggia il compleanno. Amarmi per quella che sono, come mi amava mia madre […]. Posare su di sé lo sguardo che si ha per le persone amate” (pp. 127-129, 165-167).