Il giusto mezzo di Yen Chan

3ème Millénaire n. 82 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini

3M.   Il termine impiegato per tradurre il qi è quello d’energia. Non c’è ambiguità a utilizzare una parola già ben carica di significato per la scienza occidentale?

Y.C.   Ambiguità, si, avete ragione; ma quale termine scegliere? E la situazione è ancor più complessa, per il fatto che anche in Cina i differenti significati del termine energia non sono tutti conosciuti, voglio dire dagli stessi cinesi.

Esistono infatti tre o quattro morfemi differenti per caratterizzare il qi. Dovremmo allora dire i qi, perché si tratta in realtà di  molteplici sfaccettature di uno stesso qi, una radice mille rami, come si dice laggiù, substrato dinamico dell’universo, né veramente materia né veramente spirito.

Così, i due più conosciuti si pronunciano nello stesso modo, ma si scrivono un po’ differentemente. Il primo significa il respiro, l’aria e di conseguenza la respirazione; lo si trova usato per esempio nel termine qi gong, molto diffuso oggi. Il secondo, più tecnico, ricorderebbe un cereale, senza dubbio del miglio mentre cuoce e scompone i suoi elementi, la sua quintessenza, sotto forma di vapori ascensionali. E’ associato più strettamente alle pratiche dette interne d’alchimia taoista (rivoluzione celeste, nei gong…). Il terzo fa riferimento anch’esso a volute o vapori.

L’ultimo morfema, che ci interessa particolarmente qui, ha per traduzione “assenza di fuoco”. E’ diametralmente opposto al principale carattere usato per definire l’energia nel contesto delle pratiche taoiste e che suggerisce, come abbiamo visto prima, un fuoco di cottura. Ecco che è sviante e, come sempre in un contesto tradizionale, è alla pratica la responsabilità di farci capire e realizzare di che si tratta.

Le specificità della lingua cinese sono tali che, per la maggior parte dei fonemi ci sono alla parola base dieci  interpretazioni diverse per ciascuno di loro, in funzione del contesto. Questo rende ardua la traduzione dei testi antichi (soprattutto quelli che riguardano le pratiche d’alchimia interne) perché, in fin dei conti ci si interroga sempre oggi su ciò che ha voluto dire il tale o il tal’altro autore mille anni fa, cinquecento anni fa o centocinquanta anni fa. L’autore può aver usato uno dei quattro caratteri, ma in che senso? Come saperlo in modo sicuro? La difficoltà sta anche nel fatto che abbiamo diversi livelli d’interpretazione dell’energia. Sapete, c’è un grande sbalordimento, anche in oriente, quando si dice che qi significa assenza di fuoco. La visione meccanica d’una energia manifestata è molto diffusa e non è facile uscire da quell’impasse, perfino in oriente; in occidente ancor di più.

Ancora una parola per precisare che l’energia non è una specificità dell’oriente, perché è ben conosciuta nell’occidente tradizionale, mistico in particolare, contrariamente all’occidente moderno. Il che non implica che le tradizioni siano tutte identiche, certamente no. Ognuna ha caratteristiche uniche, ognuna sviluppa le sue scoperte, ognuna ha il suo approccio, la sua colorazione. Si tratta di differenti cammini, per raggiungere, forse, una stessa cima, una stessa luce indecifrabile.

3M.   La difficoltà a comprendere i testi della tradizione cinese sta allora tanto nella sottigliezza della pratica che nella specificità del cinese.

Y.C.   La particolarità del cinese è che ogni morfema è una sorta di oggetto complesso, un po’ come un ologramma col quale bisogna giocare. La prima cosa che fa l’insegnante tradizionale, quando trasmette una spiegazione sulla pratica, è  giocare con le caratteristiche–chiave cioè con i loro componenti, per rilevarne delle sfaccettature e perciò dei significati, per scoprirne il rilievo. Così la pratica comincia nel seno stesso della teoria. Grazie alla pratica, alle spiegazioni, alla riflessione e alla maturità, possiamo trovare strati più o meno profondi e che inglobano i principi trasmessi.

Quando traduciamo qi con assenza di fuoco, suggeriamo: niente eccitazione, niente frenesia, niente dispersione, ma anche niente noia; anche le immagini o i fantasmi nella meditazione, per esempio, sono fuoco, ogni movimento centrifugo della mente è fuoco. E’ quindi difficile farne un riassunto.

Arriviamo al paradosso che è quando non c’è energia che la vera energia è.

Ecco applicati una volta di più gli eterni paradossi del Tao, dove  ogni cosa definita non è la cosa, o meglio ancora, dove una cosa è sia se stessa che il suo contrario. Un’espressione chan precisa che bisogna avanzare nell’ombra della bugia, cioè evitare di definire troppo ciò che  è o che non è, e tentare di aprirsi verso il non manifestato.

Le pratiche dell’energia in Cina sono legioni. Lasceremo da parte le tecniche esotiche per concentrarci sull’alchimia del Tao, che si tiene ben lontano da un mondo agitato e febbrile, per perseguire poteri passabilmente egotici.

Così nello stato meditativo, contemplativo, o di presenza, termine spesso usato nel taoismo e nel buddismo chan, c’è un lavoro dell’energia che poggia sulla concentrazione–attenzione più continua possibile. Che questo lavoro si condensi in mobilitazione lungo i canali energetici e su zone specifiche, o al contrario in applicazioni informali, inizia a “prendere corpo”. A questo proposito, la parola corpo o mente si pronunciano in modo identico in cinese. Nel taoismo, il corpo è l’interno, la mente l’esterno. Nel buddismo chan, è il contrario: due facce della stessa moneta.

Il corpo che si manifesta è il corpo sottile, corpo di quintessenza energetica, jing shen.

La tendenza a rendere complessi e/o a sovrasollecitare certi luoghi  particolari dello psicorganismo, produce il carico di qualcosa, che si situa altrove, fuori dalla coscienza ordinaria. Giustamente, nella cultura cinese, ci sono molte parole per definire i diversi livelli della coscienza, fino ad arrivare dove coscienza è non–coscienza, wu xin, il non cosciente chan. Quel carico, quel corpo sottile o corpo d’energia, opera nell’ombra, nella faccia nascosta della nostra apparente realtà.

Tuttavia, bisogna ben iniziare la via, e per questo, ci sono i fang bian, i mezzi abili, sui quali ci si appoggia, per risvegliare e per economizzare questo o quello: ma non basta rimanere lì. A un certo momento, occorre un lavoro globale, che implica tutto quello che siamo e tutto ciò in cui ci imbattiamo. E’ allora che per un movimento contrario, il corpo sottile, quel qualcosa di misterioso, incomincia a reagire da solo, da dietro in avanti. Quella percezione del muro, che si produce da sola, genera certe manifestazioni nel sonno o nel corso della veglia. In quel momento, conscio e inconscio, per tanto che  siano separati, cominciano a interagire. Il piano dell’energia, che allora non è più un lavoro dell’energia, si colloca a un livello sopramondano, come dicono i buddisti: può essere molto ordinario e semplice, o magico ed enigmatico, perché non si sa se la nostra pratica ha o no un’azione diretta su quel piano (ci sono due piani che coesistono, con poco o nessun contatto apparente).

Vedete che tutto ciò è complesso, sottile, occorre una vita per disboscare quella foresta vergine, quello sconosciuto, che si chiama con leggerezza uomo ordinario.

3M.     Non possiamo forse nemmeno più dire se il rapporto con quel mistero è o no sperimentale, nella misura in cui non risponde né al nostro sapere né alla nostra esperienza acquisita.

Y.C.    E’ possibile che quel piano si manifesti selvaggiamente, senza troppa preparazione; è successo. Allora la difficoltà è di non cristallizzare niente e di  reintegrare quelle esperienze nel seno stesso della scienza tradizionale; in ogni caso, perché quel mistero non sia cercato e per ciò stesso “gettato nel Cielo posteriore”, come dicono i taoisti, perché dimori nel “Cielo anteriore”. Sapete, non si può andare tanto lontano per caso. La saggezza cinese parla allora di wu nian, di non pensiero Ci sono, secondo la tradizione del Tao, due lati del pensiero; una faccia speculativa, in parole e immagini, e un’altra tutta sottile, il deposito del pensiero nel seno stesso del pensiero, un pensiero puramente percettivo.

L’energia si pone alla congiunzione tra i due modi, che coabitano nella coscienza e di cui non si ha coscienza.

Ciò che si tiene nell’ombra o negli interstizi, ciò che non si può esprimere, diventa centrale nell’approccio delle pratiche dell’energia. C’è una navigazione continua  tra il senso del vissuto e la dimenticanza di sé, navigazione che crea intelligenza e discernimento.

Il buddismo, il taoismo e le vie non–duali, nuovo paradosso, tentano di appoggiarsi sul non dimorare, dissolvendo ogni stato di esperienza, di cui necessita una persona che sperimenta, che di conseguenza fissa e irrigidisce, anche in modo sottile.

Curiosamente, ci sono forme  di addestramento alla spontaneità, che consistono nel raggruppare, la maggior parte del tempo, i fattori che favoriscono la non–coagulazione.

3M.   Questo passa anche per un discernimento, uno sguardo che constati che io scelgo, che c’è un movimento in me che cerca tutto il tempo di scegliere, movimento che si produce alla velocità del lampo.

Y.C.   Si, discernimento è una parola maestra e un principio condiviso dalle vie autentiche. Tutto l’addestramento consiste nel cambiare il nostro tempo e il nostro spazio interiore, in modo da poter osservare cose abitualmente nascoste: ma chi o cosa osserva in quel momento? Ricadiamo di nuovo in domande senza fine, perché “cosifichiamo”. Bisogna imparare a navigare tra i meandri contraddittori del nostro fiume con mezzi sempre un po’ inadatti. Con la fortuna tuttavia sorge uno spunto creatore, si manifesta un’atmosfera, una sorta di candore;  dopo un po’, diventa pulito e nuovo e fiorisce.

Nel taoismo si parla molto del tra–due, del chiaro–scuro, yu ming, che è il luogo e una delle condizioni centrali, dell’osservazione.

Quel “crepuscolo” necessita di una coscienza senza centro, di uno stato che non organizza, non formalizza. Siamo lontani qui dal lavoro dell’energia classica nel quale il yi, l’intenzione (attenzione, presenza) agisce, sale, scende, s’attiva. Ma l’uno non impedisce all’altro, se si sa operare. C’è un’arte del yi, e la saggezza tradizionale di aggiungere: dove va il yi, va il qi. Che succede allora quando il yi non si applica a niente senza tuttavia perdersi? Ecco una domanda interessante.

3M.    La frequentazione del tra–due non è ciò che affina quella energia, senza che ci sia qualcuno che agisca sull’energia?

Y.C.   Si, c’è un piano, bisogna essere “occupati a”. E ci sono piani seguendo i quali le cose interagiscono energicamente e misteriosamente. Ci sono piani coscienti dove si segue la metodologia secondo dei consigli ecc. Ma  chi insegna sa che esiste una parte dell’iceberg che non bisogna vedere, per non interferire. Allora l’aspirante è occupato (coi metodi) fino a che qualcosa non si rivela. Quando sappiamo accompagnare le acque del samadhi, cioè ci lasciamo condurre e conduciamo allo stesso tempo, c’è una decantazione e il pensiero si deverbalizza. Animitta samadhi, con la a privativa in sanscrito significa: non appoggiarsi su niente.

Il buddismo, che è spesso mal compreso su questo punto, invita a un rapporto con le cose, con il mondo, con sé, che è non fissazione e così rapporto con tutto. Il taoismo propone spontaneità, adattamento, libertà da un’energia psichica e fisica, natura propria della vera umanità, “drago e fenice che giocano con la perla scura”. C’è un’arte di navigare nel respiro, nelle emozioni, come in tutte le cose, che è energia, modo leggero di lasciare essere le cose senza che tutto si disgreghi. E’ un’arte che richiede la frequentazione di un anziano o almeno di essere molto in contatto con se stessi.

3M.   Mancando di esercitare quell’arte dello spirito, proiettiamo la nostra abitudine di nominare le cose che ci circondano nell’ambito intangibile dello spirituale. Allora concettualizziamo  a oltranza ancora  prima di aver scoperto la pratica.

Y.C.   Sicuramente è più facile dire che l’energia è questa, che il risveglio è quello, ecc. Alla domanda di Ananda, come vedete il mondo?, Budda rispose: “Vuoto e meraviglioso”, smentendo quelli che vorrebbero vedere una vacuità sterile. Nell’insegnamento Dzogchen (quintessenza del tantrismo tibetano), non c’è solo la vacuità, non c’è solo la natura che lo specchio riflette, ma ci sono anche i riflessi. I riflessi e la natura che lo specchio riflette sono non–due. Notate bene che non dicono che sono uno, le parole sono importanti, ma non–due. L’energia si pone là dove noi lasciamo il piano della dicotomia. L’energia, assenza di fuoco, assume tutto il suo senso quando si stabilisce una quiete, una continuità della presenza, e una lucidità risvegliata, quando emerge una vacuità estremamente e spontaneamente energizzata, vacuità senza limite, senza io.

3M.   Quella lucidità risvegliata non richiede una certa energia per iniziare a vedere tutti i processi che ci scappano involontariamente?

Y.C.   Occorre in effetti una grande energia osservatrice, perché il tempo rallenti e lo spazio diventi vasto interiormente, perché comincino a rivelarsi tute le sottigliezze, abitualmente troppo fugaci per essere percepite.

Occorre una grande energia per andare… alla fine dell’energia, energia senza fine per risalire il fiume verso la sorgente. Nel Buddismo chan si dice: uccidere tutti i Budda. Il Taoismo propone anch’esso il “ritorno a casa” e attraverso le diecimila cose di risalire fino allo yin yang, principio fondatore del manifestato, poi al tai ji, il supremo ultimo, infine al wu ji, il non essere, in direzione del Tao inattingibile. Allora “si attinge l’acqua e si taglia legna”, come sintetizza il chan.

3M.   Il corpo sembra perfettamente integrato con la spiritualità taoista, allo stesso titolo dell’energia sessuale, la cui finalità sarebbe di essere trasformata e non rifiutata o scaricata secondo i due soli casi della psicologia moderna…

Y.C.   I taoisti insistono molto sul corpo. Essi domandano: “che cosa non è corpo?” ed è un po’ provocatorio da parte loro, di fronte a certe vie buddiste, che affermano che non c’è che lo spirito. Ma quello che i taoisti vogliono dire, io credo,  è di  tentare di portare il corpo allo spirito e lo spirito al corpo, cioè di portare il Risveglio in tutto e dappertutto.

Ci sono tre termini nell’alchimia taoista: jing, shi, shen. Jing è detto energia spermatica e tutti considerano che bisogna trasformare quella energia spermatica. Da qui pratiche sessuali e tecniche complesse, che mirano a far risalire l’energia libidica sessuale, che allora non è più sessuale, attraverso canali energetici per restaurare il cervello. Quelle  rare pratiche di “nubi e pioggia” sono molto interessanti e profonde, ma difficili da spiegare in due parole.

Per tornare  al jing, esso  vuol dire anche cinabro,  quintessenza al di là dell’organico, ananda, che vuol dire, in sanscrito, ardore gioia o fuoco. Si parla di fuoco in mezzo all’acqua. A un dato momento bisogna trovare il fuoco nell’acqua o l’acqua nel fuoco. Quando si è nel wu –nian, il non pensiero o lo stato di coscienza senza centro e senza beneficiario, si manifestano delle esperienze. Queste nimitta e ananda devono essere “desubstanzializzate”, e questo non rimanda alle economie d’energia di cui si è parlato prima. A quel livello di interiorità appare l’enigma, un certo grado di estraneità.

In Cina come in Tibet, si dice che l’inconscio è l’intelligenza del corpo. Di che corpo si tratta? Ricadiamo nel paradosso di sempre: vacuità e riflessi, natura dello specchio con tutto ciò che viene a porsi davanti, l’energia una e multipla…

3M.   Siamo lontani dalla comprensione riduzionista occidentale, largamente dominante oggi, per cui le cose si escludono mutualmente, avendo ciascuna definizioni specifiche.

Y.C.  La cultura cinese antica è lontana dalla nostra comprensione ordinaria, ma non completamente estranea, dunque perché non importabile?

Dopotutto siamo membri di una stessa umanità. Quella cultura è quella delle mutazioni, del ritmo, dell’armonia. Così una sola espressione cinese racchiude quel principio del cambiamento, lento e rapido a seconda dei casi : bian hua. E’ anche il giusto mezzo di Confucio, funambulismo nel cuore dei mutamenti dei rapporti umani e del rapporto con sé, punto assolutamente fermo in un centro idealizzato, fossilizzato.

Ancora una cosa: la parola cinese, per Cina è zhong guò. Zhong è un quadrato con una linea nel mezzo, cioè una bocca con una linea mediana. E’ anche quella l’energia, la vacuità e la pienezza nel suo interno. Un agopuntore lo comprenderà a suo modo: è un ago che penetra in un buco, perché gli aghi d’agopuntura sono dei vuoti, e intervenire in quel modo è regolarizzare. Gli osteopati anche lavorano sui vuoti, per esempio le articolazioni. Nell’ideogramma Cina troviamo quella vacuità che è qualcosa che ne nasce, che vi coesiste. I taoisti parlano  del vuoto che fiorisce, chong, aggiungendovi la chiave dell’acqua.

Infine,  l’ideogramma guò, il paese, è un quadrato che contiene tre linee e un punto. E’ l’imperatore che governa i tre livelli (cielo, uomo e terra), ma è anche l’immagine dei tre paioli  (i tre campi di cinabro del corpo) ed è ancora , la giada, che suggerisce il centro indistruttibile del cuore–mente.

Vedete che ci si può divertire. Tradizionalmente il gioco non solo è lecito, ma è incoraggiato.

Quel paese straniero e stranamente vicino è da scoprire, è l’oriente del nostro spirito, l’occidente del nostro corpo o il contrario, poco importa, poiché tutto questo è questione di parole. Percorrere la nostra geografia interna “in vivo” è dunque il solo vero viaggio che ci invitano a fare le tradizioni viventi d’oriente come d’occidente in direzione della nostra umanità vera. Vi ringrazio.