Il pensiero di Krishnamurti nel 1950 di R.Linssen

06/09/2010
Nella prima parte Linssen fa un breve resoconto del clima degli incontri di Krishnamurti a Parigi nel 1950, spiega le difficoltà che incontra una persona risvegliata nel suo contatto con gli altri…Segue una seconda parte con una breve esposizione del pensiero di Krishnamurti.

(rivista Spiritualité. No 63-66. Marzo-giugno 1950)

Arrivando direttamente dall’India, dove aveva fatto molte conferenze tra il dicembre1949 e il marzo 1950,Krishnamurti si fermò due mesi a Parigi.
La domenica di Pasqua,9 aprile, fece una prima conferenza nella sala Pleyel, dove aveva parlato 20 anni prima.
La domenica 16 aprile, la seduta ebbe luogo nella grande sala del Palais de la mutualitè.
Il 23 aprile la riunione si tenne nell’anfiteatro Richelieu de la Sorbonne,ma due ore prima della conferenza l’affluenza era tale che la direzione si decise a darci la grande sala.
E’ con questo prestigio che diede le sue 3 conferenze.
Gli uditori venivano da ogni parte del mondo.
Indimenticabili le ultime conferenze della Sorbona.
Krishnamurti parlava in inglese.
Tradotto da Francis Brunel, l’esploratore francese molto noto per i suoi viaggi in India, Nepal e Cachemire, da cui aveva portato filmati a colori di grande bellezza.

Tradurre Krishnamurti all’impronta non è facile e possiamo dire che Francis Brunel lo fece in modo eccellente.
Molti furono meravigliati, altri delusi. In generale le conferenze furono seguite molto male, sfuggendo al pubblico il loro significato più profondo. D’altronde è inevitabile che Krishnamurti deluda coloro che sperano di affidarsi a lui, o quelli che sperano che gli si porti una verità a loro misura, servita su un piatto d’argento. Lui invece vuole soprattutto metterci in faccia a noi stessi, per prendere coscienza della nostra confusione, dei nostri limiti, della nostra povertà interiore, dell’irresponsabilità e della poca intelligenza in cui viviamo. Nessuno contesta che sia un compito particolarmente ingrato. Egli non cerca il successo, ci mette implacabilmente davanti ciò che non vogliamo vedere in noi stessi. Questo lavoro arduo e delicato lo fa con le sue discussioni. Ma l’incomprensione manifestata dal pubblico deriva da molti fattori:
in primo luogo il termine discussione non è appropriato al genere di scambio che vuole Krishnamurti. Ma è difficile trovare altri termini. Le riunioni-discussioni dirette d lui non possono essere paragonate a quelle che si svolgono nei circoli intellettuali.

In una discussione ordinaria, ogni partecipante dice un’opinione. Difende il suo punto di vista, cerca degli argomenti, si sforza di arrivare alla conclusione precisa che richiede la sua particolare formazione e le sue personali esperienze. Il processo è razionale, logico, dove si esercitano le caratteristiche dell’attività mentale.

Krishnamurti non ci sottopone delle idee nel senso abituale del termine, non parte da una ipotesi. Non è un teorico abile in costruzioni metafisiche. Se il suo linguaggio è quello che può sembrare un linguaggio intellettuale, è perché per comprendersi bisogna parlare e si è obbligati ad usare parole, simboli che evocano idee, gli archetipi mentali. Ma egli impiega l’idea per andare oltre l’idea. Stigmatizza i processi abituali dell’ideazione che ci imprigionano, per liberarci dalla magia potente dell’ideazione. Ad ogni momento attira l’attenzione sul fatto che è costretto ad esprimersi con parole, è inutile ascoltare a livello verbale. Se ci fa pensare, è provvisorio, perché, anche se paradossale, è per farci oltrepassare il pensiero. Si attacca alla stessa radice dei processi di verbalizzazione, di classificazione, di immaginazione e d’ideazione. Tutte queste attività portano le impronte indelebili della memoria e del passato, da cui è necessario liberarsi per offrirsi alla divina spontaneità del Presente.

Lungi dal sottoporci idee, ci mostra qual è il fondamento di ogni idea. Quando ci fa una domanda, non ci chiede di rispondergli immediatamente con i nostri pregiudizi e le nostre convinzioni, cosa che malauguratamente facciamo tutti. Appena veniva formulata una domanda, ognuno si sforzava di portare la sua conclusione, di dimostrare il fondamento della sua formula, di argomentare in favore di un sistema economico o religioso particolare.

E’ chiaro che quando ci suggerisce di discutere una domanda, ne conosce perfettamente la risposta e che sarebbe infinitamente più semplice per lui darcela seduta stante. Col rischio di spazientire il pubblico si sforza invece più di due ore, con una coscienza, un amore e una pazienza straordinarie, di farci riflettere sulle nostre risposte già fatte; in altre parole tenta di rallentare i nostri automatismi mentali troppo rapidi e superficiali.

Vuole andare alla radice stessa dell’io. Tutte le nostre miserie derivano dall’egoismo. Tutte le nostre civilizzazioni, le nostre morali, le nostre religioni, le nostre formule economiche e politiche sono basate sull’io . Incoraggiano, rinforzano e proteggono l’io e sono molto rare le filosofie che osano denunciare apertamente la fragilità dell’io e le conseguenze che ne derivano.

La radice dell’io si trova nell’attività mentale. Le nostre civilizzazioni e la nostra morale hanno divinizzato il pensiero, l’hanno considerato come la manifestazione più alta, più nobile di tutte le attività umane. Il pensiero è uno degli alimenti più importanti dell’io. Lungi dall’unire gli uomini, li divide. In nome di dogmi, d’ideali e di credenze spesso assurde, sono stati commessi i crimini peggiori. Il pensiero, come funziona nella maggioranza degli uomini, è l’origine di tutte le violenze e di tutte le separazioni. Questa requisitoria contro il pensiero non deve, ben inteso, affatto condurre l’uomo verso uno stato di incoerenza, d’impulsività o d’irriflessione. Questo è fondamentale.
Dobbiamo comprendere che la più alta forma d’intelligenza si realizza quando cessa l’attività mentale. Esiste uno stato d’intensa lucidità senza idee, immagini, simboli, ma la maggior parte di noi non ne sospetta neanche l’esistenza.

Per accedere a ciò che supera il pensiero, ci diceva Krishnamurti nelle sue ultime conferenze alla Sorbona, bisogna che si realizzi il silenzio del pensiero.
Quando ci fa una domanda, non ci chiede una risposta automatica, vuole che poniamo quella domanda a noi stessi, in un modo più profondo e responsabile possibile, la più lucida che abbiamo mai fatto fino ad ora.

La risposta vera alle domande che Krishnamurti fa non può venire che da un gran silenzio mentale. E’ una delle ragioni fondamentali che ci convincono a non usare più il termine discussioni al genere d’assemblea che si sono tenute all’istituto Pasteur o al palazzo della Mutualitè.

Cosa ci insegna Krishnamurti?
Il problema del mondo, ci dice, è un problema individuale. L’umanità deificata da molti umanisti non è che la somma degli individui che la compongono. Perciò è poco utile cambiare il quadro esterno se non si procede alla trasformazione radicale degli individui che utilizzano quei quadri. Gli avvenimenti attuali dimostrano che, qualsiasi siano i quadri, le etichette, i regimi, gli uomini restano identici. Identici soprattutto nella sordida testardaggine con la quale commettono gli stessi errori.

Nel 1950,negli avvenimenti di Corea per esempio vediamo esattamente gli stessi drammi di quelli che hanno preceduto l’ultima guerra.

Come trasformare l’uomo individualmente, poiché è chiaro che questa trasformazione è fondamentale? Con la conoscenza di noi stessi, ci dice Krishnamurti. Ma questa conoscenza di noi stessi comporta molti più fattori che non lo si supponga generalmente.

Molti rispondono che prima di arrivare lì, il mondo avrà il tempo di essere più volte distrutto.
A questi rispondiamo che le soluzioni di superficie fatte dagli specialisti, sia economici che politici, non sono mai state così numerose, ma il disagio mondiale non fa che peggiorare. Questo dimostra bene che l’elemento fondamentale e costitutivo del caos mondiale, l’individuo, non è stato toccato.
Certi sono dispiaciuti nel vedere che Krishnamurti non suggerisce apertamente riforme politiche in favore di un governo mondiale, con trasformazioni dell’economia attuale in economia distributiva.
Noi tutti siamo per queste riforme e comprendiamo che sono necessarie. Il fatto che Krishnamurti non ne parli non deve essere interpretato come un’ostilità nei loro riguardi.

Ma supponiamo per un momento che le consigliasse apertamente: la maggioranza le adotterebbe perché Krishnamurti le ha raccomandate. Questa attitudine sarebbe la negazione stessa del suo insegnamento.

La conoscenza di noi stessi sulla quale Krishnamurti insiste, è fondamentale; il suo compito è quello di insistere sul carattere essenziale di quell’approfondimento. A ciascuno il proprio compito nella storia degli eventi.

Deve essere impiegata una tale concentrazione di energia, una tale cura, una tale attenzione, che Krishnamurti verrebbe meno alla sua missione, se disperdesse la nostra attenzione con le attestazioni sedicenti pratiche che molti reclamano da lui.

In più, ciò che sorprende gli uditori abituati ai pensatori d’oriente è che ci invita a risolvere i problemi da soli, lì dove siamo, liberandoci da ogni autorità esterna, compresa la sua.

Esiste, ci dice, un modo di vita semplice, naturale, estatica, libera dalla paura e dalle nostre eterne avidità. Ma l’accesso a quel ritmo di vita semplice non è riservato che a quelli che si conoscono pienamente, ossia a quelli che hanno scoperto, al di là delle attività sterili dell’io, la pienezza del Reale.
Si potrebbe riassumere ciò che intende con la conoscenza di noi stessi, poiché in queste poche righe già tre volte dobbiamo ricordarle: ricorrendo ad una lucidità e ad una vigilanza di ogni momento, per far sì che le ombre dell’inconscio entrino nella consapevolezza.

Tutti gli uomini sono ”agiti” dal loro inconscio molto più che dal loro conscio. Essi ignorano che la loro parte conscia non costituisce che un infimo frammento del loro io totale.

Gli uomini pertanto non desiderano conoscersi profondamente. Preferiscono evadere con diverse consolazioni. Fuggire non vuol dire risolvere. Una inerzia mentale ci predispone a fuggire, a imitare, a ripetere formule meccaniche. E’ infinitamente più comodo per molti imitare, accettare ciecamente formule fatte, piuttosto che scrutare da soli la fondatezza delle affermazioni altrui e mettere in dubbio i sistemi in vigore o quelli che ci vengono proposti.

E come se non bastasse, in ragione della gravità degli avvenimenti che sconvolgono il pianeta, le apparenze danno ragione a quelli che reclamano riforme immediate, delle trasformazioni di facciata.

Sogniamo. E il dramma consiste nel fatto che non ce ne rendiamo conto. Siamo veramente storditi. Al posto di quella millenaria abitudine all’autoipnosi, Krishnamurti ci invita ad una attitudine alla responsabilità, alla lucidità, alla costante attenzione.

In altre parole, se si vuole superare l’io, bisogna prima conoscerlo. E questa conoscenza di sé, già così spesso ricordata, necessita di una presa di coscienza profonda dell’io, in cui si rivelino i minimi dettagli dei propri pensieri. Un uomo che non pensa da solo è un automa. Non è un uomo. E’ un animale in forma umana.

Sebbene Krishnamurti si opponga agli schemi e alle classificazioni che sono all’origine delle sistematizzazioni del pensiero, potremmo dire che esistono grosso modo tre fasi nella storia dell’evoluzione psicologica dell’uomo.

1. Una fase di nascita dove si inserisce l’io. Nasce appena. Non sa ancora molto bene che è un io. Pensa in funzione del gruppo, della tribù, della nazione o di qualche collettività qualunque sia.

2.Una fase di maturità dell’io. L’io si libera del pensiero collettivo. Lo mette in dubbio.Tende a ripensare ai problemi da solo. L’io si consolida, prende pienamente coscienza di se stesso.

3. Una fase di liberazione, dove l’io maturato prende coscienza della fragilità dei suoi limiti. La sterilità dei suoi molteplici desideri di divenire gli appare evidente. Sente che gira in tondo. Scopre che è agito da una forza onnipotente che aveva sempre ignorato: l’istinto di conservazione e l’incessante desiderio di divenire qualcosa, la sete di continuità o di durata, tre cose che non sono che una e che sono all’origine di tutte le servitù. Ha scoperto che l’attività mentale è la principale manifestazione di quella sete di divenire e, avendo compreso profondamente, questa attività mentale cessa da sola. Questa è l’esperienza della liberazione, nel corso della quale si realizza la Pienezza divina con la trasparenza mentale.

Come arrivare là, si domandano certi con una comprensibile ansia. Il come è molto importante. Perché? Perché i mezzi condizionano il fine. La soluzione delle nostre difficoltà dipenderà dal modo di affrontarli. L’attitudine mentale con cui esaminiamo un problema condiziona già a priori la soluzione.

Tutto lo sforzo di Krishnamurti si concentra su questo punto: assumere un’attitudine totalmente nuova rispetto ai nostri problemi e comprendere che ,fino a che proveremo a risolverli nel campo dell’attività mentale, resteremo prigionieri delle spire diaboliche di un ciclo chiuso. E’ il ciclo dell’io.

Quello che importa smascherare in noi non è la sorgente profonda dell’io, la fabbrica dei problemi? E questa sorgente non è formata dal flusso mentale,alimento essenziale dell’io?

Cosa è il pensiero? E’ una reazione della memoria del passato nei fatti del presente. L’intelletto è un processo di verbalizzazione continua: nomina, classifica, paragona, etichetta. Il processo statico del pensiero conferisce un’apparente continuità all’io. Ogni pensiero è solo una ripetizione del passato.Ripetizione di cose ereditate, di cose acquisite o adottate meccanicamente.In ognuno di noi l’automatismo dell’attività mentale opera con una straordinaria rapidità

La rapidità stessa di questo processo e i considerevoli sforzi che bisogna fare per tentare di dominarlo, tradiscono l’esistenza di un’autodifesa. Di cosa? domandano alcuni. Autodifesa dell’io, che con l’attività mentale esprime la sua sete di durata, la sua avidità di continuità… Autodifesa di ciò che le sacre scritture chiamano il vecchio uomo in noi. Questo vecchio uomo è il passato che tenta di prolungarsi indefinitamente verso il futuro, è l’istinto di conservazione che opera come padrone assoluto sul piano psicologico.

La rapidità stessa di quel processo e i considerevoli sforzi che bisogna fare per tentare di dominarlo, tradiscono l’esistenza di una specie di autodifesa. Di che?domandano certi. Autodifesa di ciò che le antiche scritture chiamano il vecchio uomo in noi. Questo vecchio uomo in noi è il passato che tenta di prolungarsi indefinitamente verso il futuro, è l’istinto di conservazione che fa da padrone assoluto sul piano psicologico.

L’attività mentale viene in realtà da una paura fondamentale: la paura di non continuare a vivere. La sovrapposizione rapida delle associazioni psicologiche conferisce una apparente continuità all’io; una specie di solidità psicologica deriva dal complesso della struttura mentale in continuo movimento.

La solidità psicologica fatta dalle nostre resistenze ci dà la sicurezza . Fino a che vorremo ottenere la sicurezza in questo modo non l’avremo mai; il pensiero, che è il risultato del passato, non può scoprire la Realtà che si genera da sé e non è un risultato. Non dobbiamo fabbricarla, confezionarla, costruirla coi nostri effimeri materiali. Essa e’.

Il pensiero che è un divenire non può scoprire l’Essere che è. Ma se il pensiero realizza la quiete e la trasparenza, quello che è al di là e dentro di lei,si rivela in lei.

Krishnamurti ci domanda se, riferendoci al passato, sotto la forma delle memorie, delle abitudini, delle ripetizioni automatiche, possiamo accedere alla scoperta dell’essere, il cui ritmo è pura creazione, fioritura e rinnovamento di tutti gli istanti.

Con l’intelletto che comanda processi d’interesse e di calcoli rigidamente limitati alla pura causalità, è possibile realizzare uno stato d’essere spontaneo dove si esprime ad ogni istante la pienezza della vita nella sua gratuità? Evidentemente no.

IL pensiero è la sostanza stessa dell’io. Siamo a tal punto soggiogati dal desiderio di divenire verso il futuro, che siamo incapaci di vederci come siamo nel presente

La conoscenza di se stessi consiste nel fatto di vedersi come si è nel presente e non come si vorrebbe divenire in un prossimo o lontano avvenire. Questa avidità di voler divenire qualcosa è all’origine di ogni violenza. L’attività mentale è definita da Krishnamurti l’essenza della violenza, perché essa implica le tensioni,le lotte in vista del divenire,In essa sono inscritti tutti i conflitti inerenti al suo compimento.

Egli ci domanda di prendere coscienza di quella avidità in noi, per potercene liberare, perché la presa di coscienza profonda di un simile processo è essa stessa liberatrice.

In un certo modo non bisogna nemmeno che interveniamo, poiché ogni atto dell’io non fa che perpetuare lo stato di cui vorrebbe liberarsi. Questo semplifica in un certo senso il problema. L’io che è nella confusione e che è l’essenza stessa della confusione, non può che creare confusione.

Quando abbiamo compreso profondamente ciò che abbiamo detto, realizziamo l’immobilità del nostro divenire personale, che si traduce nella quiete mentale. Questa quiete è molto diversa da quelle ottenute dai molti yoga che mettono in essere processi di disciplina. Certo, l’io può disciplinare il pensiero e immobilizzarlo. Ma un tale silenzio è il silenzio della morte. C’è una grande differenza tra la quiete del pensiero che viene da una comprensione profonda e impersonale e il silenzio mentale che risulta da un atto di disciplina dell’io. Non perdiamo mai di vista che tutto ciò che genera l’io non può essere affrancato dall’ignoranza dell’io e che una volta di più i mezzi condizionano il fine.

Krishnamunti non ha parlato che una volta del termine Dio. Evita di adoperarlo. Non parla mai dell’Essere come lo facciamo noi, per tentare di farsi capire. Non parla della pienezza divina, né dell’estasi della comunione. Ci sarebbe molto più gradevole udire da parte sua parole ispirate agli insegnamenti mistici che ci sino cari.

Una volta di più abbiamo creato modelli mentali ed emozionali del divino. Krishnamurti ha un infinito rispetto della realtà divina come è. Lotta implacabilmente perché ci liberiamo da soli dalle immagini mentali o emotive del divino, per meglio permetterci di realizzare un giorno il ritmo segreto di Dio stesso, così come è in se stesso.

Ecco perché la sua missione è così ingrata, il suo insegnamento all’apparenza così negativo, tanto è attento a liberarci dai miraggi spirituali ai quali vorremmo attaccarci. Invece di criticarlo, come fanno certi, salutiamo in lui il maestro più puro, il più disinteressato che ci sia, che mette ogni momento in pericolo la sua fama e il suo successo personale col carattere severo, implacabile ed eccezionalmente disinteressato del suo messaggio.

Ram LINSSEN
traduzione:Luciana Scalabrini.