Il senso di colpa nella morale indiana di Swami Siddhesvarananda dell’ordine di Ramakrishna

(A cura di Luciana Scalabrini )

Vi ringrazio di questa occasione che mi è offerta di parlare tra di voi. La signora Choisy mi ha chiesto di parlare della nozione di colpevolezza nel pensiero indiano. Definiamo questa nozione col termine aparadha. Per farvi comprendere meglio la nostra posizione rispetto a questa nozione, provo a fare un paragone col pensiero cristiano. Sembra che presso i cristiani sia stata una nozione all’inizio collettiva, in diretta relazione con il mito del peccato originale. Il primo uomo ha commesso il peccato e tutte le generazioni discendenti da lui hanno portato il peso come se qualcosa nel sangue dell’umanità sia stato sporcato. Dalla macchia originale nessun uomo ormai può liberarsi da solo; per lavarsi completamente bisogna che intervenga la grazia  di Dio (ruolo del battesimo senza cui l’anima non può contemplare direttamente Dio).

A quella nozione  di colpevolezza che abbraccia l’umanità intera potrebbe corrispondere in una maniera molto estesa presso di noi la nozione di avidya, o ignoranza. E’ la condizione originale, stato nel quale l’uomo nasce e muore fuori dalla conoscenza della verità. E’ una condizione universale che tocca tutti gli esseri che vengono al mondo.

Tranne i grandi esseri, quelli che sono nati senza avidya; si dice che sono sfuggiti alla maya. Avidya, come per i cristiani il peccato, è il terreno dove si esercitano gli sforzi dell’uomo nell’oscurità per diverso tempo, finché la Grazia non venga a salvarli: “l’atman si rivela a chi vuole”, dicono le Upanisad. L’avidya infatti non può essere cancellata che con la Grazia, cioè l’apparizione di una “ forza trascendente che fiorisce dall’essere».

L’ignoranza e con lei il senso di colpa non scompare che quando esplode la luce della Coscienza suprema (Brama – vidya). Essa risulta da uno sforzo di purificazione di sé che la Grazia è venuta a coronare. E’ acquisita in modo imprevedibile e senza nessuna necessità, con un atto di intuizione dove il soggetto e l’oggetto scompaiono, soggetto, oggetto e atto di   coscienza essendo fusi tutti e tre nella luce del sat- cit- ananda.

Lo stato di ignoranza può perciò essere trasceso perché in realtà non abbiamo mai smesso di essere liberi. La coscienza della realtà del nostro essere elimina allora ogni sofferenza e ogni senso di colpa: il Maharshi è al di là del bene e del male nella pace e nella serenità.

Se lo confrontiamo col pensiero indiano d’ordine più teologico, si può dire che la tradizione vede la manifestazione svolgersi entro le grandi epoche o yuga; nel Satya-yuga, o età d’oro ,gli uomini giungevano facilmente alla conoscenza seguendo la legge, il dharma, amavano e rispettavano Dio; era un secolo di innocenza.

Nell’età attuale, il kali-yuga, le leggi sono stravolte, gli uomini non comprendono più il loro dharma, è diventato molto difficile arrivare alla conoscenza. Ma basta un piccolo sforzo per arrivarci molto rapidamente: la recitazione del japam, o ripetizione del nome del Signore, e le cattive intenzioni  non hanno presa.

Ogni epoca avrebbe la sua caratteristica particolare. Vivere all’interno di uno dei grandi cicli cosmici è partecipare ad una grande avventura comune in cui ci si trova investiti con un certo karma (peso delle azioni anteriori, individuali e collettive ). L’inflessibilità di quella causalità morale e spirituale sostituisce in un certo modo la nozione di peccato originale.

Il senso di colpa è il senso di quella avventura che si gioca con noi, che lo vogliamo o no, ed è per noi il senso della storia, la memoria di ciò che abbiamo fatto in altre epoche che viene  a incontrarsi in noi col risveglio dell’ordine morale.

Ogni partecipazione alla collettività, cosciente o no, deve dunque necessariamente fare pesare sui suoi membri un senso di colpa. Questo è il destino umano cui l’uomo non può aspirare a liberarsi da solo. Diciamo che il Budda include la totalità degli esseri nella sua liberazione e rifiuta il nirvana per non entrarvi che quando il più piccolo essere sarà liberato.

Il senso di colpa collettivo conduce, lo si vede, il pensiero indiano, non a un rimpianto del Paradiso perduto, ma alla sicurezza che si basa sulle vite successive e sull’autorità dei grandi esseri che hanno aperto il cammino della liberazione attraverso la conoscenza (jnana marga).

Il senso di colpa e di colpa collettiva è il sentimento di una disposizione a peccare, di una inclinazione permanente e congenita verso il male, non tocca però l’essere nel suo fondo, che rimane libero e che prima o poi, secondo la volontà dell’uomo e la grazia di Dio si rivelerà nella sua inalterata grandezza.

Vediamo ora come si presenta il senso di colpa nell’individuo. Il bambino da piccolo non fa nessuna distinzione tra il bene e il male. Questa si forma con le nozioni di “permesso” e “proibito”, nozioni inculcate nel mentale dagli adulti; la paura di essere punito e anche di fare del male, favorisce nel bambino l’acquisizione di quelle nozioni e collabora all’educazione.

L’intera vita indiana, secondo la credenza popolare, è assoggettata a regole e a  usanze. Ad esempio, è proibito parlare sulla soglia di una porta, se lo si fa porta male. Il bambino sente dire quello e quando dimentica di osservare quella usanza, la paura è così grande che si risveglia in lui l’obbligo del suo dovere.

C’è un certo numero di proibizioni relative all’igiene. L’uomo non deve mai sporcare l’acqua; se si sputa in uno stagno o vi si gettano porcherie, la credenza popolare vuole che in una prossima vita ritorniate a ripulire l’acqua con una foglia di tamarindo. Quando toccate  il piede di qualcuno, bisogna fare un namascar, cioè un saluto di rispetto con un gesto tradizionale. Dietro tutte queste proibizioni si trova un senso religioso di paura. Quella paura indefinita di fare qualcosa di male è quella che favorisce l’evoluzione della coscienza spirituale. L’esigenza di agire bene con cui si abituano i bambini, non è sostenuta da argomenti razionali.

La società comanda all’individuo, con prescrizioni e proibizioni, di comportarsi secondo regole stabilite e imposte. L’intelligenza ancora assopita del bambino e le sanzioni religiose non lasciano scelta. La famiglia incombe  e succede a volte che il senso di colpa nei genitori sia così forte, che la sua proiezione sui figli li paralizzi. Tuttavia un giorno si risveglia un impulso morale e il bambino può iniziare ad apprezzare le proibizioni a cui fino ad allora l’aveva costretto la paura.

Il senso di colpa allora può manifestarsi in due casi: una regola è stata imposta da fuori al bambino che l’accetta senza comprenderla ed ha una reazione quasi nevrotica per la costrizione esercitata sui suoi istinti; oppure sente che quei tabù sono un ostacolo al suo sviluppo e si forma in lui un complesso di inferiorità e di ribellione. Nei due casi c’è un senso di colpa. Quando c’è ribellione, l’individuo smette di fare ciò che fino ad ora faceva per paura, o fa ciò che fin qui non faceva per lo stesso motivo.

Parlo di una ribellione provocata da una pedagogia arretrata. Il senso di colpa nasce dalla paura di  avere rotto una via religiosa e offeso gli dei: è la forma che allora prende l’istinto di conservazione del me arrabbiato.

Anche se l’individuo si rifiuta di vivere come  prima, rimane in lui qualche segreta paura. Sebbene razionalmente indifferente alla regola che non ha mai compreso, vi resta affettivamente attaccato e nel suo cuore rimane un interrogativo angoscioso.

Ma il senso di colpa si manifesta soprattutto quando l’individuo segue un dovere che non è il suo, rompendo con le leggi del suo sviluppo. Allora è un vero conflitto morale: darma sankata, un malessere che viene dal conflitto tra due forze contrarie di cui si sente oscuramente la presenza.

La morale fin qui si basava sulla paura del castigo, ora sulla paura di fallire la propria legge d’evoluzione (dharma). Il senso di colpa è allora simile ad un rimorso e rivela all’essere il vero conflitto morale in cui l’individuo si oppone a se stesso. Da lì viene una forza di proiezione che spinge l’individuo a cercare una soluzione in una direzione nuova, originale e creativa.

L’uomo deve scoprire i suoi valori e darli a se stesso. Ma per quello deve prima comprendere il suo conflitto. Il senso di colpa scomparirà quando avrà fatto luce in se stesso. Il senso di colpa ricopre dunque un duplice ruolo: dà all’individuo la coscienza di esistere come un me separato e lo fa nascere alla spiritualità.

Ecco come vediamo questa azione: l’idea di evoluzione è una delle idee più familiari in India. Partendo dagli organismi più rudimentali l’evoluzione prosegue senza abbandonare nessuna acquisizione della vita, fino a che l’uomo in cui l’eredità animale fedelmente trasmessa si trova all’improvviso coniugata con nuove possibilità. Nell’uomo il contatto fin allora permanente che sostenevano i sensi con la materia, diventa più lontano. Una nuova relazione appare: quella dell’uomo con Dio. Che accade? Sembra che assistiamo al dispiegarsi di una stessa coscienza alle prese con un campo di esperienza gradualmente allargato: “Nel minerale la coscienza dorme; comincia a vibrare col vegetale; si agita nell’animale; è nell’uomo che diventa cosciente di se stessa. Così si esprime il poeta sufi Roumi.

Animati da un istinto gregario gli organismi si associano in raggruppamenti che annunciano la società umana, come uno sciame o un formicaio: è uno stadio subumano. Là si esprime una coscienza oscura (tamas), in quella solidarietà che crea energia  (prana) e lavora su un piano orizzontale. Arriva un giorno in cui, dietro la spinta di una rivoluzione, l’individuo rompe con quella solidarietà animale. La parte si stacca dal tutto e l’individuo si risveglia al senso del suo isolamento. La curva della vita diventa ascendente: si espande su un terreno aperto  a nuove conquiste  e nuove possibilità  Questo è il piano dove il rajas domina. L’individuo,  cessando di fare corpo con la massa, si vede dotato della facoltà di commettere errori e di esserne cosciente. Si oppone all’ambiente che fin qui l’aveva integrato e si definisce in modo più preciso davanti a  Sé e agli altri. Da questa facoltà ricevuta nascerà il terzo movimento di rivoluzione, quello dell’acquisizione della vita sul piano di sattva, o purezza spirituale. La spinta verticale che crea il me si espande di nuovo sul piano orizzontale. Là l’individuo ritrova quella solidarietà di tutto ciò che è, ma in un modo questa volta cosciente. (Bhagavad GitaVI 30-31 ).

Il senso di colpa appare spontaneamente quando l’individuo sembra separarsi da quelle forze biologiche che lavorano per mantenere la coesione dell’alveare o del formicaio e che si esprimono come anima di gruppo. Non è che la risonanza nella coscienza dell’individuo della pressione esercitata prima su di lui dall’istinto collettivo. Con la paura che l’accompagna, costituisce il segnale d’allarme lanciato dalla vita di fronte all’apparire di un nuovo comportamento. Che l’uomo con un’educazione appropriata si renda conto della situazione, che comprenda la natura delle forze che si contrappongono in lui, e ne sarà libero.

Il senso di colpa non sembra giocare qui che su una coscienza ancora immersa nelle tenebre delle sue origini. Resta però l’agente indispensabile per condurre l’uomo sul piano della vera moralità, là dove si sente il vero autore delle azioni che compie. Il processo evolutivo che continua risveglia l’uomo al senso spirituale. La memoria carica ancora di implicazioni affettive relative alla morte, alle malattie ed alle molteplici disgrazie della vita, si vede obbligata ad affrontare problemi  d’ordine superiore. Preso tra la sua memoria antica e la sua aspirazione a realizzare una nuova umanità, l’uomo scopre il vero conflitto morale. Il senso di colpa allora denuncia la presenza in noi di un appello proveniente da uno slancio superiore della vita coniugato in noi con le spinte istintive.

Nel Mahabharata, Duryodhana esprime la situazione a Krishna: “Signore, ciò che è bene, lo so, ma non posso farlo. Signore, ciò che è male, anche quello lo so, ma non posso impedirmi di farlo”. Quel sentimento rivela le origini e il senso della nozione di evoluzione; comprenderlo è portare un’energia nuova alla costruzione del nostro carattere, energia che ci permetterà di mortificare le tendenze animali che minacciano di farci perdere il terreno conquistato. “Veritas liberabit vos” come dice il Vangelo di Giovanni.

Guidato da quel sentimento, l’uomo conquista nuovi valori. Ancora di più, diventa autonomo e creatore di nuove forme di comportamento. Liberandosi di tutto ciò che non considera essenziale per la sua vita, trova il suo vero dharma, il cammino non ancora percorso che lo porterà alla verità Così l’essere nella sua corsa, guidato dal senso di colpa, esce da tamas, attraversa il rajas ed esce sul piano sereno di sattva o della verità. Il pensiero indiano tiene molto a coltivare un rapporto costante tra la ricerca morale e la ricerca metafisica. Con l’idea morale di rivoluzione mette in campo diversi piani di verità. Solo il Reale Assoluto, satyasaya satyam non cambia. Prima di accedervi, l’uomo deve oltrepassare zone successive di comprensione. Quando si parla di verità bisogna dunque considerare da una parte il Reale Assoluto, dall’altra il reale relativo nella posizione occupata dell’individuo sulla linea del suo sviluppo (swadharma). In se stesso il Reale si trova al di sopra di ogni apprendimento mentale, non potendo essere un oggetto per un soggetto. In lui il soggetto si perde come l’atto stesso di conoscenza.

Ma quella stessa fusione è la prova dell’identità del soggetto e dell’oggetto, di atman e di Brahman. Braham e atman non sono che uno. Gi esseri vedono una realtà uniforme e varia là dove non c’è che un solo Essere, l’atman. Esistono  dunque nella struttura sociale differenti ordini di condotta morale e spirituale corrispondenti ai differenti aspetti che prende la Realtà nella sua espressione empirica (vyavyahrara) ; re, bramini, commercianti, operai, a ciascuno è offerta una possibilità di agire da sé, un’interpretazione legittima benché particolare del suo varnashrama dharma. Questa posizione, lo vedete, nega l’esistenza di un imperativo categorico, portatore di universalità. Riassumendo, il senso di colpa deve essere considerato l’espressione di una forza rigenerante.  Segnala all’individuo che sta oltrepassando quel momento di rivoluzione dove la vita sembra arrestarsi su un piano animale. Ma ancora l’individuo deve prendere coscienza di quel ruolo giocato.

La comprensione è un dovere e una liberazione. Allora comprendiamo le parole della preghiera:” Signore, perdonatemi tutto ciò che faccio di male”. Ogni errore crea in noi come un accumulo di energie che non circola più secondo un ritmo normale, dove la vita sembra arrestarsi e che si traduce sul piano mentale con un complesso. L’idea di certe malattie è legata in noi all’idea di colpevolezza. Ora, la vita è impossibile con il senso di colpa. I mezzi spontaneamente trovati per liberarsene sono stati spesso le sofferenze accettate come un’espiazione, la creazione artistica o l’atto di fede.

Si racconta  la storia di Narayana Bhatta, nato in Malabar nel secolo XVI, di famiglia bramana. Non potè astenersi dalla via dell’ascesi: alzarsi alle 4 del mattino, fare le abluzioni, ripetere le litanie, gli inni, ecc…. Conduceva tuttavia una vita disordinata  frequentando case di malaffare. Un giorno un uomo di casta inferiore, religioso, gli chiese:” Perché voi che siete nato bramano non utilizzate quel privilegio per il vostro progresso spirituale?”. Folgorato da quella osservazione, Narayana Batta abbandonò tutto, si convertì ed entrò nella vita spirituale. Per espiare scrisse un volume in versi del Bhagavata Purana e divenne uno dei più grandi santi del Malabar. Il maestro che aveva scelto dopo la sua conversione era di casta inferiore. Istruire un brahman era uscire dai propri doveri stabiliti. Per punizione si ammalò di lebbra. Narayana Batta domandò allora al suo maestro di passargli la sua malattia;  la malattia lo contagiò e Narayana, lebbroso, abitò nel tempio di Guruvayun dove compose il Narayaniyana Bahatta per espiazione. Composto l’ultimo versetto, ricevette l’illuminazione e fu guarito.

Abbiamo tutti qualche peccato da espiare e per cancellare ogni senso di colpa contiamo sulla grazia di Dio. Ma bisogna sapere che non voler prendere coscienza di ciò che veramente siamo, è il vero peccato ed è nell’atto coraggioso di conoscenza che sta veramente la grazia di Dio.

Swâmi SIDDHESVARANANDA