Io è una porta di Philip Renard – terza parte

3ème Millènarie n. 73 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini – prima  parte

Per me Nisargadatta Maharaj fu uno dei più grandi insegnanti del XX secolo.  Ciò che in particolare lo rende così importante è la sua notevole capacità a dimostrare che tutto ciò che poteva essergli chiesto non era fatto che di concetti.

Poi distruggeva quei concetti mettendo in evidenza la loro inutilità. Qualsiasi fosse la domanda, o la risposta con la quale si presentava il visitatore, Nisargadatta dimostrava che si riduceva a un attaccamento a schemi di pensieri o di concetti. Si riferiva allora alla loro origine, e rinviava a quell’origine, alla sorgente.

Tutto, assolutamente tutto, era minato dal fatto stesso di essere un concetto e perciò era falso, compreso ciò che stava dicendo. Insisteva nel fatto che solo il vero è spoglio di ogni concetto. Il solo mezzo per imparare da Lui è,  poiché non è più in questo mondo, di leggere i suoi libri. In questa lettura risulta evidente, o divertente, constatare che lui stesso, grande distruttore di concetti, è ricorso sempre a dei concetti.

Nel passaggio di livello in livello, usa molti termini sanscriti per descrivere un livello, poi gli stessi, o press’a poco, per un altro livello, e infine dissolve l’insieme in quello che chiama “lo stato profondo blu e nero della non esperienza”. Purtroppo, per questo, molti ricercatori, avendo già una percezione della realtà che sono, proseguono la loro ricerca a causa del messaggio: “voi non siete che l’Assoluto”. Sostengono sempre che “conoscono già la coscienza”, ma allo stesso tempo esprimono la loro frustrazione per aver mancato “la tappa seguente”.

Ho l’audacia di dire che non c’è una tappa seguente.

Tutto ciò è in rapporto ai limiti di ciò che può essere sperimentato e al fatto di stare lì totalmente. Nessuno dovrebbe essere indotto in errore da un qualunque discorso sull’Assoluto, né essere sedotto dalla ricerca dell’Assoluto.

Tuttavia, si potrebbe obbiettare, Nisargadatta fa dei discorsi sull’Assoluto e dice anche che nient’altro è reale! Questo sicuramente è uno scoglio: sapere che siamo Quello e essere al tempo stesso incapaci di sperimentarlo ha per effetto di farci cercare questa esperienza. E’ il costante paradosso a cui Maharaj ci espone.

Come fare con questo paradosso?

Maharaj risponde lui stesso la domanda, e con un concetto particolare che descrive con i termini “la conoscenza Io Sono”, o ancora lo stato “Io sono”.

Abbiamo detto prima che Nisargadatta era importante perché distruggeva uno dopo l’altro tutti i concetti. Ma è importante anche aver introdotto il concetto “Io sono” che considerava dover essere inghiottito, ingerito e dissolto. Lo descriveva come il “rimedio ultimo”. E’ vero che lo chiamò anche la “malattia stessa” o la “sofferenza stessa”. Però con la stessa insistenza, indicò spesso che quel concetto preciso è il rimedio perfetto, e punta verso la libertà. Così, eccoci di nuovo di fronte a un paradosso: qualcosa che è la malattia si trova ad essere al tempo stesso, nella sua natura essenziale, il rimedio.

Una citazione dà la chiave che permette di penetrare nel paradosso. Per me è la più bella citazione che ci sia. Infatti il completo mistero dell’esistenza è descritto in alcune frasi. Vi si trova tutto e i testi di Maharaj possono essere interpretati con questa prospettiva.

“Quel contatto con lo stato “Io sono” è in ogni essere; quello stato d’essere possiede il contatto d’amore per l’Assoluto, e si tratta di una rappresentazione dell’Assoluto. L’Assoluto predomina solo. La verità è Brahman (Para Brahman) nella sua unica totalità, nient’altro che Brahman. Nello stato di Brahman assoluto, il contatto con lo stato dì essere, l’ “Io Sono” cominciò e con lui sono apparsi la separazione e il senso dell’altro. Ma questo stato “Io Sono” è più che un piccolo principio; è il Mula-Maya stesso, l’illusione primordiale. Il grande principio Maya vi fa passare per tutti i suoi giri, tutte le sue trappole e siete così soggetti a tutto ciò che dice. Alla fine, quella luce che è vostra, lo stato d’essere, si spegne. Maya è così potente che vi avvolge del tutto. Maya vuol dire “Io Sono”, “desidero essere”. Non ha alcuna identità fuori dall’amore. La conoscenza di “Io Sono” costituisce l’avversario più irriducibile ,ma anche l’amico migliore. Anche se si tratta del vostro più grande nemico, se lo trattate nel modo giusto, si trasformerà e vi guiderà verso gli stati più elevati”.

Il senso dell’ “Io sono” è un principio universale, presente in modo simile in ogni essere umano e precede ogni interpretazione del tipo “sono Gianni” o “sono Anna” o “questa o quella persona”.

Nisargadatta ( o i suoi traduttori) aveva l’abitudine di usare il senso dell’ “Io sono” insieme al termine “coscienza” (chetana). Spesso diceva di questa coscienza che era illusoria. La sostituiva con molti sinonimi, come “conoscenza”, “stato di Krishna”, “Testimone”, “seme”, “Dio”, “essere”, “stato d’essere”, “sattva, “il principio supremo”. Tutti questi termini evocano un contatto. Senza alcuna ragione, qualcosa appare spontaneamente dentro a qualcosa che è fuori da ogni esperienza, da ogni sapere, da ogni forma. E’ solo nel momento in cui lo constatate che potete dire che capita qualcosa, non prima. La manifestazione e la constatazione di questo sono una sola e stessa cosa, chiamata “contatto”.  Si tratta della prima vibrazione, la forma più sottile di contatto chiamata “coscienza” da Nisargadatta, il principio “Io Sono”.

L’elemento fondamentale di quella citazione dev’essere trovata nell’ultimo paragrafo “La conoscenza dell’ “Io sono” costituisce al tempo stesso l’avversario più irriducibile e il miglior amico”. Tutto vi si trova, e ne risulta che potete essere abbandonati qui con un’angosciosa sensazione di disorientamento. Questo spesso si rinforza con la lettura di altri passaggi per l’accento messo sull’illusione (l’avversario più irriducibile). [Infatti, ciò che è realmente vero, l’Assoluto, è descritto come “qualcosa che non può essere sperimentato”].

E’ nettamente detto qui che anche se è il vostro più grande nemico, sarete ben avvisati di onorarlo. Illusione o no, lì dove noi siamo, poco importa perché all’ultimo non c’è che Dio, l’eterno principio creatore sorgente di tutte le cose. E’ vero che potete essere sedotti dalla forma al punto da attaccarvi, ma è anche per questo stesso principio che potete liberarvi dall’attaccamento.

In uno dei Purana, i vecchi libri dell’induismo, si può trovare un passaggio che somiglia alla nostra citazione. “Quando Essa (l’illusione) è felice, diventa propizia e la causa della libertà dell’uomo”. Il testo evidenzia l’adorazione di quel principio, che dev’essere il più totale possibile; si tratta di dargli tutta la nostra attenzione.

Il senso di “voi siete” è così comune, così ordinario, che facilmente lo trascurate ed è per questo che Nisargadatta insiste sul contrario, cioè di onorarne pienamente il senso, adorarlo come il Dio più elevato. Martella sempre perché la calma si crei là dove siamo, perché possiamo adorare pienamente quella coscienza, quel contatto. “Adorate atman (voi siete) come un Dio; non c’è nient’altro. Quella conoscenza “voi siete” vi condurrà al più alto, all’Ultimo. Il “voi siete” sarà presente in voi fino a che respirerete. Adorando “voi siete” come l’unico Brahman manifesto (Saguna Brahman) arriverete all’immortalità. Dovete ricordarvene continuamente, “ruminare”, dovete pensarci in permanenza.

Il significato esatto di quella adorazione ci interroga. Infatti, si associa automaticamente a questa parola una preghiera verbale. Adorare consiste nel “portare la propria attenzione su qualcosa con tutto il cuore”. In questo mondo essere innamorati ne è il miglior esempio. La vostra attenzione si proietta totalmente sull’essere amato, che lo vogliate o no. Ne siete riempiti e tutto ciò che va nella direzione di questo amore si fa senza sforzo. Possiamo chiamare questo “adorazione”. E ora siete invitati a praticare questa adorazione: essere innamorati della nostra coscienza ordinaria, sperimentarla in quanto tale, il contatto con lo stato d’essere, il sentimento d’essere.

Come supponiamo di mettere in pratica una tale adorazione?

E’ con la fusione totale con il vostro stato d’essere, con la vostra vibrazione primordiale. Proiettate la vostra passione in quel “luogo” non localizzabile, incentivate quella vibrazione e non v’inquietate per il fatto che si tratta sempre di una forma di dualità, di una forma d’energia o di “corporalità”. Adoratela, non trattenetevi, datevi pienamente a lei. Allora lei vi mostra, in questa fusione, che “due” cessa d’esistere. Non può essere la vostra nemica “la prima sorgente di ogni gioia è il vostro essere: siate lì. Se siete portati dal flusso della Maya, sarete nella sofferenza. State sempre nel vostro stato d’essere. Nisargadatta mette in evidenza il modo in cui, in seno al “principio supremo”,  il principio “Io Sono” l’elemento liberatore, può essere distinto dall’elemento di seduzione, di attaccamento.

A volte lo paragono ad una fonte nel mezzo di un bacino. L’elemento “Io Sono” è l’apertura della fonte. Di lì l’acqua sgorga verso l’alto con forza, creando migliaia di gocce e la forma globale che ne risulta è chiamata fontana. Appena l’apertura della fonte si materializza, non c’è che la forza della propulsione e questo fa apparire la fontana. Allora il consiglio è: restate nell’apertura della fonte, restateci e abbandonatevi alla sua vibrazione senza forma. Non provate in nessun modo a manipolare la forza. Che processo naturale potete fermare?  Tutto è spontaneo. Ora siete nella coscienza che si muove, che vibra. Non pensate d’essere separati da questa coscienza viva e vibrante. Restando nell’apertura della fonte, adorando Quello che genera tutto questo, siete liberi. “La ferma determinazione del devoto e l’attrazione di Dio per quella devozione li fanno attirare vicendevolmente. Il momento del loro incontro faccia a faccia è quello dove si fondono l’uno  nell’altro. Il devoto perde la sua coscienza fenomenica e, quando ritorna in sé, scopre che aveva perso la sua identità, perduto in ciò che in Dio non può essere di nuovo separato”.

“Io sono il Dio, io sono il devoto, e sono l’adoratore; tutto è uguale, un solo principio comune”.

Il carattere divino di Maya, la Seduttrice, si attenua dal momento che comprendete la necessità di non lasciarvi trattenere da Lei nelle Sue forme di creazione. Dovete semplicemente  notare Quello che la vede. “Meditare su chi sa che siete seduti qui. La sensazione che il vostro corpo è qui è l’identificazione col corpo, ma chi sa che il vostro corpo è qui è l’espressione dell’Assoluto”.

Il carattere liberatorio del principio “Io sono” è presente tanto nella conoscenza che nella rinuncia. Qui l’approccio dell’ jnana (la conoscenza, la comprensione) e della bhakti (devozione) sono fusi totalmente l’una nell’altra. Ne risulta a volte che la discriminazione nell’abbandono non è più necessaria e a volte che la comprensione evita l’errore di un abbandono che non sarebbe che sottomissione alla stessa manifestazione, alle forme transitorie.

L’abbandono non è giusto che nell’abbandono a Quello che è permanente.

“Dapprima, sono stato sedotto da Maya, poi, quando la Maya mi ha abbandonato, non ho più avuto bisogno di Maya e così l’ho rifiutata”.

Notiamo, per esempio, che il corpo seduto qui potrebbe essere chiamato “conoscenza”. Conoscenza è infatti conoscere in quanto tale, ed è lì l’elemento liberatorio, perché la conoscenza è letteralmente l’espressione dell’Assoluto, come abbiamo detto prima. La Coscienza Assoluta o il Conoscere si esprime nel fatto di “conoscere qualcosa”. La coscienza e l’Assoluto non sono quindi due cose diverse. Non c’è che una Coscienza. Ha la natura dell’Assoluto e un carattere dinamico, vivo, esperenziale, il “contatto”.

Necessita di una cosa sola: la presenza di una certa vibrazione è infatti la conoscenza di quella vibrazione e quella conoscenza stessa è la Conoscenza Assoluta. Non c’è nessuna separazione.

Nell’Assoluto, non c’è niente da Conoscere e per questo Nisargadatta lo chiama “stato di non conoscenza” o “non mentale”, stato in cui l’attenzione si dissolve in se stessa.