L’immediatezza dello sguardo di George Brunon

3ème Millènaire n. 88 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini

3M.   L’immaginazione creativa è una questione insoluta, tanto sembra sfuggire al contemporaneo disabituato. Come artista pittore e scrittore potete chiarire un po’ questa questione?

G.B: Il tema dell’immaginazione creativa è un falso problema che riconduce sempre alle due immaginazioni, quella fantasiosa e quella creativa. Parlare dell’immaginazione creativa non ha interesse se questo serve a creare, ed è per questo che, come pittore, parlo delle mie esperienze e non di astrazioni concettuali sull’immaginazione.

Ora, con la mia esperienza, percepisco la creazione nell’immediatezza dello sguardo, nel puro vissuto dello sguardo che incontra un oggetto. Nel nanosecondo di quell’incontro c’è una sostanza che sarà la materia con la quale la coscienza si va verbalizzando, formalizzando.

Ciò che chiamiamo la creazione è corollario della Creazione, un saper fare, una lotta con se stessi, con le proprie idee, con la propria scienza, per arrivare a cogliere quella sostanza in ciò che è puro vissuto.

La vera Creazione è prima di questo, lei non è più nel modo in cui il panettiere fa la pasta poi la fa cuocere, lei è nel grano che è diventato pasta. Ora giustamente, tutto quel lavoro del panettiere è quello che comunemente si chiama la creazione.

3M.   Infatti consideriamo ingenuamente le cose dal punto di vista dell’opera. E’ a partire dall’opera che consideriamo la creazione immaginando che colui che vi ha lavorato l’ha creata. Ciò che dite è che la creazione è di qua.

G.B: E’ quello; a partite dal momento in cui l’occhio si posa su un oggetto, c’è un’informazione trasmessa dal sistema ottico al cervello. Il cervello tratta quella informazione e nello stesso tempo cambia lui stesso. Trasforma la nostra coscienza creandone una sostanza.

C’è qualcosa che è sorto, un enigma che si è creato; e questo enigma richiama un nome che si rifà alla nostra tradizione, alla nostra cultura. E’ lì che diventa tutto complicato, perché si tratta di evitare che questo assolutamente nuovo diventi qualcosa di convenzionale. Attraverso le convenzioni, l’apprendimento, o la cultura, si tratta di far passare  qualcosa che non è nel conosciuto, né nella cultura, ma in una sostanza che si è creata in noi e che è tutt’altro che la soggettività. Questo non è semplice, al contrario, perché come trattare quella sostanza innominata, sempre nuova, che non è affatto di questo mondo? E’ come se quella sostanza venisse da un altro tempo, come se non fosse inclusa nella cronologia, come se ci fosse un’istantaneità coerente, come se sorgesse un mondo senza nome, senza forma, senza contrario.

Il sorgere di un mondo assolutamente sconosciuto, ma con una forza così straordinaria che per arrivare a sopportarla siamo obbligati a darle una forma, a trasformarla per farne qualcosa che può esistere nella temporalità, nel tempo che viviamo.

3M.   Affrontare la creazione allora non è senza rischio.

G.B: Sicuramente, certi vi hanno perso la ragione. La creazione è così potente che può far saltare i livelli di guardia che ci permettono di vivere. Governare quella sostanza che è come un vulcano è un grandissimo problema personale. Infatti l’immaginazione creativa non crea un’opera, ma crea noi stessi, crea la coscienza.

La nascita di un’opera d’arte è nel confronto tra due mondi che non ubbidiscono assolutamente alle stesse leggi.

Ed è sorprendente che da quei due mondi estremamente differenti la trasformazione che si opera non ci faccia esplodere; perché la creazione dovrebbe fare esplodere la nostra coscienza, farci perdere il limite che è la ragione, farci perdere la relazione con il linguaggio verbale. Quello che succede d’altronde in un certo modo nel poeta, che, quando parla della rosa, non parla più della rosa, ma  di un incontro che c’è stato senza che nessuno sappia che cos’è quell’incontro. Il poeta prova a dire con le parole ciò che non ha parole. E’ il dramma di Mallarmé esposto nel suo testo “igitur”.

3m.   C’è allora il mistero dell’incontro tra l’essere che siamo e il mondo.

G.B: E in quel mistero, non sappiamo bene se è il pittore che dipinge la cosa o se è la cosa che si dipinge attraverso il pittore.

3m.   E lo spettatore?

G.B: La soggettività è soprattutto nello spettatore. Perché lo spettatore, anche lui, incontra un oggetto sconosciuto guardando un quadro. Ma su quel quadro la maggior parte delle persone cerca senza saperlo di proiettare se stessa.

Le persone si attendono dall’immagine uno specchio che gli parli di loro ed è qui la soggettività al di fuori dalla creazione. Lo spettatore dunque deve, anche lui, diffidare della trappola che sta nel “mi piace” e “non mi piace”. Questa tendenza blocca il dialogo con il non conosciuto, impedisce l’incontro. Quando con i nostri pregiudizi diciamo mi piace o non mi piace, vediamo noi stessi nell’opera. Ma un’opera d’arte è lì per portarci in una dimensione di noi che è il nostro essere e non per condurci alla storia dell’arte, alla scienza, ai nostri problemi familiari ed alla nostra soggettività. L’opera d’arte ci porta ad una dimensione di noi stessi, dove si forgia il vero pensiero, dove ciò che pensa e si pensa in noi è più importante  di noi.  A partire da qui lo spettatore diventa creatore dell’opera d’arte.

3m.   A parte che oggi le opere d’arte si fanno rare, e gli spettatori molto meno creativi e contemplativi; loro sono piuttosto disabituati senza nemmeno comprendere questa situazione, che tuttavia li interroga.

G.B: L’epoca in cui siamo ha orrore della creazione, perché dietro quel termine c’è il sacro che fa paura. L’accademismo della nostra epoca consiste nel racchiudere l’opera d’arte nei problemi oggettivi e sociali, cioè nei problemi della relazione tra l’uomo e la società che invariabilmente riconduce tutto al denaro.

Così una scatola di conserva posta in un museo trae il suo valore dal fatto di essere vista dalla gente e dai discorsi che suscita.

Come dice Andy Warhol “dietro i miei quadri, non cercate, non c’è niente”. Ma quel niente non è affatto l’assenza del me, dell’uomo che realizza il puro vissuto della prima impressione. Quel “niente”” di Andy Warhol e di tutti quelli  che lo seguono non è che una rivendicazione del “niente” al di là delle frontiere sociali.

Questa concezione, derivata dal marxismo, dice che l’uomo non è  fatto che per la società. I dadà avevano una questione sulla dimensione dell’uomo, ma la risposta non è mai stata all’altezza della domanda. L’impasse dell’arte contemporanea è la prova che si pone un’altra domanda, a partire dall’arte ed evidentemente sull’uomo.

3m.   Mi sembra che l’immaginazione o la creazione sia per voi lo specifico dell’umanità, di tutti i tempi, perché fuori dal tempo.

G.B: Quando parlo della creazione, parlo anche dell’uomo della preistoria, così come di Poussin, perché si tratta sempre di tentare di  fissare l’invisibile nel visibile.

Quando l’uomo preistorico vedeva un bisonte in corsa, avveniva qualcosa in lui: sapeva che vedeva altro rispetto al bisonte che correva. Raccoglieva quella sostanza misteriosa che lavorava per farne un bisonte in corsa. Ed è la stessa cosa che fa Poussin, anche lui, che, prima di mettersi al lavoro, ha una visione creatrice che ha dell’impreciso e del senza limite. Ed è quell’illimitato che recupera per creare opere terribilmente e giustamente condotte con tutta quella disciplina del 17° secolo, che si ritrova per esempio in Racine. E’ questo l’enigma di cui si tratta. Ed è così con tutti i pittori autentici, che siano Manet, Van Gogh o i Cubisti, il processo parte sempre da quella impressione, che non ha alcun senso, alcuna forma, alcuna parola, ed è un puro incontro con il mondo.

Bisognerebbe vedere che cos’è quel puro incontro col mondo basandosi, per esempio su Husserl, che, nelle “Meditazioni cartesiane” ha descritto bene il “me” che diventa trascendentale.