Nova di Stephen Jourdain

3ème Millénaire n. 5 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini

Stephen Jourdain ha pubblicato molti libri e numerosi testi.

Ciascuno di quegli scritti testimonia una avventura interiore cominciata dalla prima infanzia. Vi proponiamo qui dei frammenti di quella opera, scelti  per illustrare ognuna delle tappe percorse da quest’uomo perfettamente saldo nella sua umanità e che niente distinguerebbe veramente dagli altri uomini, se l’esperienza mistica non sembrasse essere in lui uno stato naturale, spontaneo. Aggiungiamo che il suo linguaggio è semplice, diretto e, volontariamente o no, un tono sempre al di sotto del tema trattato.

L’infanzia di Stephen Jourdain è un formicolio di momenti di diversa percezione, di ingiustificabile felicità che si chiamano “istanti privilegiati”, o anche, semplicemente,” momenti”. Le notazioni che si riferiscono a quel periodo sono state raggruppate sotto il titolo GLI ISTANTI.

 

Quando entra nell’adolescenza, il Cielo stesso cade su Jourdain: accesso folgorante a una conoscenza di Sé vera. In una frazione di secondo, il corso della sua vita è cambiato; per lui ormai c’è prima del “risveglio” e dopo. Le fate buone vissute nell’infanzia sono per sempre relegate tra le cose non significative. L’insieme dei brani che si riferiscono a quella illuminazione decisiva sono stati intitolati L’EVEIL.

 

A colpo sicuro, con la rivelazione di quel bene spirituale, ricchezza suprema, l’epopea finisce? Ebbene, no. Passano due anni, e improvvisamente quella luce interiore che l’abita, ingloba il mondo detto esteriore. La sua percezione del paesaggio terreno, per quanto umile, diventa contemplazione estatica. L’abbiamo chiamato IL MONDO TRASFIGURATO.

 

Gli “Istanti”

Non vi è mai capitato di passeggiare per strada e poi, ad un tratto, non è più nella strada che siete, è nel La Strada, preceduta dall’articolo determinativo, e si mette come a brillare, e una straordinaria felicità piena e ronzante è lì, con l’impressione che da secoli vivete quel secondo , che durerà sempre?

Nel mezzo della notte, mi sveglio. Lo scompartimento è immerso nell’oscurità e tutti dormono. Meraviglioso, già, questo ritorno a se stesso nelle tenebre piene di fracasso e illuminate di presenze addormentate, che vi conducono…; come il risveglio a una fiamma profonda e chiara, e dolce, allora!

… Il mio posto è vicino alla finestra, ho appoggiato le gambe al sedile e attraverso il vetro superiore, mi tuffo nella notte blu. Non si muove, ed è tempestato di stelle; presenza e biancore diffuso di una nube solitaria, che ristagna.

Mi sembra di ricordare che penso a Mercedes che mi sta trovando tanto più maturo, più “uomo” dell’anno scorso.

Guardo la nube…

E improvvisamente succede quella cosa fantastica e, per un secondo o due, le porte del Paradiso si aprono: improvvisamente, la sostanza della nube cambia, si muta in un pane di una materia sconosciuta, angelica–zucchero filato spirituale? Interiorità fatta talco?…; nello stesso tempo, l’intervallo tra lui e me muore, la nube diventa viva, si anima di una vita immensa. Questa vita mi ama; questa vita, con la quale la mia mente (dove Io è stranamente evidente) comunica direttamente, m’ama d’un amore infinito e me lo dice. E in quella voce, o favolosa felicità! Io riconosco la mia, IO SONO LA NUBE.

Il Paradiso, in uno dei suoi aspetti almeno, sono molte delle piccole cose tutte uguali, anonime, intercambiabili, l’universo,  l’esperienza fatta sabbia e la sabbia fatta vita, coscienza, e quella vita, quella miriade di anime minuscole sorgenti, non essendo semplicemente e non venendo da nessuna parte, essendo là senza origine e non finendo più, nel loro ribollimento secco, il loro ribollimento di talco, di svanire, di dissolversi, di raggiungere le tenebre a forza di diventare infime, a forza di sfuggire e di restringersi in se stesse, essendo là senza origine e non finendo più di rabbuiarsi, ed essendo là ancora una volta, esse o altre, campo polveroso d’estasi, e ricominciando a non finirla più di rabbuiarsi…, in istanti che non si susseguono più gli uni agli altri, che formano isolotti e diventano eterni. Una specie di calore si manifesta in seno alle piccole cose. E poi ciascuna di loro, i piedi del tavolo, le traverse della sedia, quella pila di libri, il muro di dietro, diventa un miliardo di punti viventi, vibranti, ribollenti, qualcosa come del gesso o della neve polverosa compressa, che vivrebbe. E qui ancora, incomprensibilmente, ci si bagna nella felicità.

(L’ultima volta che questo mi è successo, era prima; nel metro, alle sei del mattino)

Ero stato svegliato dopo un bel po’ di tempo, ma l’idea “sono  sveglio”, quella volta là, non mi è venuta. E quella veglia innocente conservava la spontaneità del sogno, correva, correva senza freno, viva e pura, incarnandosi in una cascata di pensieri (ma erano veramente pensieri?), piccoli e solitari ruscelli d’oro, che scorrevano senza rumore, gaiamente, nel cuore delle tenebre.

A un certo momento, la coscienza “sono sveglio”  è venuta a visitarmi al fondo di quell’oro, dolcemente e silenziosamente, come un fiocco di neve su una guancia; senza interrompere il fascino, senza che certe macchinazioni si rimettano in moto, senza alterare nulla.

E istantaneamente, da quella veglia che si raddoppiava, sono scivolato nella chiarezza incredibilmente intensa e dolce, senza età, abissalmente centrale d’una percezione nuova del mio proprio fatto, scelta miracolosa, senza fine, dell’essenza “me” attraverso essa stessa, coscienza, conoscenza d’essere, esistenza, ineffabile “meità”, meraviglia. (Questa potrebbe essere una descrizione del risveglio. Pertanto, devo dirlo, non si trattava che di un istante, di uno stato; senza  misura comune né comune natura con quell’avvenimento intraducibile: l’uso vero della facoltà di coscienza).

Il Risveglio.

Era sera, ero nella mia camera, disteso nell’oscurità, e ritornavo nella mia testa dopo un lungo momento, probabilmente dopo una mezz’ora, la frase di Cartesio: “Cogito ergo sum”. Mi era sembrato, nei giorni precedenti, di intravedere una prodigiosa verità in quella piccola frase, e provavo a ritrovare quella verità intravista in un baleno. Riflettevo da tempo, ripetendomi infaticabilmente: “penso dunque sono”, E facendo a  volte il viaggio dalla realtà viva che in me stesso corrispondesse a “penso” e “sono”, fino a caricare quelle parole del loro senso vero. Sforzandomi di pensare al Cogito nella mia vita. Era un lavoro molto difficile, ero sfinito, il clic che mi avrebbe rivelato il significato misterioso della frase non si produceva, ma, a un certo momento, un altro clic, che non aspettavo, di cui non supponevo l’esistenza, ha dovuto giocare, e l’avvenimento si è prodotto con una subitaneità soprannaturale.

E tutt’a un tratto mi sono ritrovato in un prima, un inizio insospettato di me stesso, vegliando di una veglia senza limite, sapendomi, e che mi sapevo, e sapendomi che mi sapevo che mi sapevo: all’infinito, e trovandomi totalmente identico a quella veglia, a quell’abisso di autocoscienza, che non era affatto che mi fosse data, ma al contrario che essenzialmente io non subivo, facevo bruciare me stesso.

Scivolo in una lucidità senza nome, conquista inaudita dell’aurora che si chiama coscienza di sé. Quella luce non è uno stato subito passivamente: è un atto che ormai so fare. Non è nemmeno, adirla propriamente, una esperienza che faccio: è me, è esattamente Steve Jourdain. Quanto a quel tipo là, la cosa è evidente: egli comincia in questo istante. So con certezza assoluta che sto per realizzare la scoperta più importante e più preziosa che sia data a un uomo: la strada, la scrittura, l’atomo, veramente non sono che polvere in confronto a questo; me, allievo di seconda, me, per il quale il gran problema è trovare abbastanza coraggio per passare agli atti con Vera, oh Vera! – io spezzo il pane con la Verità, e i più grandi sapienti, i più grandi filosofi, fanno dell’astronomia senza sapere che la terra gira.

Non è senza rassomigliare al risveglio  di soprassalto. Se volete, è quella commozione, immaginando qualcosa d’infinitamente più improvviso e ancora più incisivo, …quando l’essere interiore ha già gli occhi aperti. Quando la coscienza di sé ordinaria getta tutti i suoi fuochi. E’ emergere come da un coma da quella coscienza là. E’, senza alcun preavviso nel mezzo dell’atto lucido della propria mente, lacerare  la carta della cosiddetta veglia. Sfondare la carta di quella mente.

E’ un secondo prima–poi un mezzo secondo prima–poi un decimo di secondo prima, essere nella camera familiare della propria mente assorto nelle proprie riflessioni, normalmente (benchè forse con uno zelo inusuale? O eccessivo?), poi bisognerebbe poterlo scrivere fuori dalla foglia  in un lampo. Ciò che capita non è il seguito, non appartiene alla sequenza, esplode all’esterno del segmento di storia intima. All’esterno dell’aneddoto vivo che si sta elaborando, decapitandolo. Quello che succede non appartiene alla continuità soggettiva… non è né del prima né del durante né del dopo. L’evento che sorge  si verifica fuori dal destino del me, e accusa questo di essere un’illusione. L’evento che folgora –la coscienza  che già ha folgorato, in una istantaneità  totale come al momento del risveglio, l’anima ha avuto la sensazione di aprire gli occhi dal centro dell’illuminazione, veglia a monte della storia di una mente –che brucia senza filo

Il Mondo Trasfigurato.

Ho diciotto anni. Il Risveglio brilla al centro di me da due anni.

Da un certo tempo, seguivo un filo, senza avere la minima idea che potesse portarmi  a quella disgregazione di ogni mia percezione, senza cercare nulla, veramente. Avevo scoperto una cosa singolare. Ogni volta che posavo lo sguardo su un gruppo di oggetti, o piuttosto, sul quadro formato da uno o  più oggetti, potevo, qualsiasi fosse il quadro, fare apparire in quello spettacolo materiale, un significato, o almeno qualcosa che mi faceva dire dentro di me: “Ma questo vuol dire qualcosa!”. Non sapevo molto bene cosa volessi dire con quello, ma la presenza di quella specie di sentimento era inalienabile, irrinunciabile; e sorgeva  sicuramente dagli oggetti guardati. Provavo intensamente il sentimento che, se lo volevo, potevo formulare quel senso, decifrare il testo, la storia che affiorava nel quadro… Come facevo per far affiorare quel significato? Isolavo visualmente una zona qualunque del luogo dove mi trovavo, mettevo mentalmente una cornice attorno a un frammento di paesaggio scelto arbitrariamente (come un lembo di copertura in zinco e come un comignolo… La cima di un albero che si appoggia sul bordo splendente di una nuvola…Un giornale stropicciato e la parte inferiore d’un armadio…, facevo un certo gesto interiore, producevo uno sguardo capace  di comprendere l’essere uno, che formava segretamente l’insieme,… e il significato era là!

Quella sera, mi trovavo nella camera rosa di una casa di vacanza, coricato, e stavo comprendendo qualcosa con quello sguardo. Ascoltavo uno dei centomila e improbabili quadri latenti nell’immagine della camera. E tutto a un tratto, ho sentito quello salire come uno spasmo in quel placido scenario che mi circondava!

Da un momento all’altro, era come se un qualcosa che avevo sugli occhi, o piuttosto nell’anima, si sciogliesse e ci si mette a vedere con un’intensità favolosa, a vedere come non lo si supponeva che fosse possibile vedere tutto questo che là, attorno a sé, funzionava senza che si sapesse, da sempre, e ciò senza il minimo sforzo, e con un solo raccolto, come si ammucchia un covone.

E fino a che quello non si spegne, fino a che, improvvisamente, non ti afferri la formidabile e misteriosa pesantezza della visione abituale, hai la pelle d’oca, l’occhio si spalanca, il viso si fa serio, il passo piccolissimo, in omaggio alla sconvolgente felicità che è là.

Ciò che mi interessa nelle cose, non è la loro bellezza, o la loro armonia, non me ne importa completamente; è che esse sono. Perché un giorno un certo clic è scattato, una certa vela si è spiegata, e mi è stato dato di avere la percezione effettiva della loro esistenza, e di scoprire così che una semplice cosa, per il fatto stesso di essere, ha un valore che il Bello e l’ Armonioso non sognano nemmeno di avere. Si, un valore tanto acuto, generatore col suo contatto di una felicità così intensa, così insperata, che dopo quello il Partenone stesso non è che paglia.

Allora cos’è quella trasfigurazione? Cosa succede nel mondo?

State, suppongo, passeggiando nel vostro quartiere…

Che avviene nella strada X?

Improvvisamente, il paesaggio familiare si spacca, cade come una scorza. Sotto c’ è una strada sconosciuta. Sotto c’è una città sconosciuta, in tutti i punti simili a quella che sta per scomparire, e nemmeno mai intravista. Mai neanche presentita dalla vostra sensibilità negli istanti più magici. Si, bisogna dirlo; mai nemmeno toccata da lei  nelle più fini illuminazioni infantili!

Nello stesso tempo che si manifesta quella soprannaturale freschezza dello sguardo, il sentimento della realtà delle cose cresce immensamente, diventa un tuono, quello del presente anche.

Rilevate centomila dettagli, imbracciate quella armata con un solo gesto dell’attenzione (come se qualcosa avesse forzato il metallo del tratto di attenzione abituale ad aprirsi, a dispiegarsi in tutte le direzioni).

La vostra visione dei colori è il teatro di un grande rovesciamento. Infatti, mi sembra che stiate per imparare il senso di  quella parola: colore.

E’ tutto? … Niente affatto.

Mi resta da ricordare un altro aspetto della rivoluzione che si opera nella vostra visione del mondo, un altro volto, forse più essenziale ancora, del vero mondo…

Nello stesso tempo in cui, per la prima volta, prendiate possesso della vostra visuale, apprendendo che l’immagine materiale del mondo è un infinito totalizzabile, o, se preferite, una totalità senza limite, cresce da quella specie di paesaggio assoluto, di sovrapaesaggio, una qualità totalmente sconosciuta dello stato di coscienza abituale, una famiglia di impressioni rigorosamente nuova, irriducibile a una  qualunque  esaltazione di quelle totalizzazioni spirituali  parziali che si chiamano: Fisionomie, Melodie, Atmosfera, ma che possono essere considerate al di là dell’ordine superiore di emozione, l’ultramelodico, l’ultrapoesia.

Ed ecco perché dai vostri occhi, in quell’istante preciso, dai vostri occhi che scoprono lo spettacolo triste di un vago terreno punteggiato di vecchie carte e di stracci, spuntano lacrime di felicità!

Aggiungerei, per finire, questo appunto: ogni spostamento del corpo, ogni rotazione della testa, porta, per una umanità elevata almeno, una modificazione del paesaggio contemplato. Nella visione abituale, quella modificazione è vissuta come un avvenimento che si produce all’interno dello stesso quadro. Nella visione risvegliata lo stesso cambiamento rinnova profondamente il quadro, che diventa un altro quadro.

Portatore, sicuramente, di quelle impressioni sopramelodiche.

Ponendo l’anima a contatto con un nuovo individuo della popolazione qualitativa squisita alla quale essa si è aperta.

Ed ecco perché l’apparizione nella vostra visuale di una sezione di  palizzata, di un pezzo di tetto in eternit e di un giovane abete rosso, determina, nel fondo di voi, l’esplosione di una nuova onda di felicità!