Sapessi quanto mi manchi di Hélène Naudy

 

3ème Millénaire n. 80  – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini

Chi incontriamo noi veramente?

L’altro non è già se stesso per se stesso?

L’altro che credo estraneo, ma prima di tutto separato da me.

Ciascuno di noi, un mondo d’idee, un mondo mentale. Si, siamo separati, ma separati con le nostre menti che cercano la valorizzazione e per questo fatto a un certo momento dello scenario: il confronto.

La separazione è la conseguenza dell’identificazione con la nostra mente.

Siamo, ciascuno di noi, un ammasso di pensieri e di immagini, fatta unicamente di memorie, di un passato al quale ci attacchiamo. Allora la relazione con l’altro? E’ la relazione tra due mucchi di immagini. E, secondo le temperature di ognuno di loro, ci sarà o attrazione o repulsione. Sono proprio leggi mentali che provocano la relazione o non la producono. Così non incontriamo dell’altro che l’involucro mentale (una maschera), lui non incontrerà di me che l’involucro(una maschera), il mio carapace, a volte il mio ricciolo mentale. Dell’altro non vedrò, non chi è, non supporrò nemmeno quell’ammasso di cui parlo, non vedrò che le mie idee su di lui…come lui non vedrà che le sue idee su di me. Noi mettiamo sull’altro un’immagine, proiettiamo “mi manca”, “non posso contare su di lei né avere fiducia…” E mi metto in questa prigione dorata nella quale vorrei confinarla, mi ci ficco… il mio desiderio di possederla, la mia paura di vedere che nessuno mi può appartenere, il mio egoismo di non volerla che per me, la mia incapacità di guardare in faccia quel vuoto interiore che mi abita, quella cosa che lei riempie con la sua presenza. E il conflitto si acuisce, senza farsi attendere. “Colpa tua se sono infelice”. Mettiamo sull’altro dei desideri pensando, senza pensarlo veramente che è… un oggetto… Un oggetto da possedere.

L’altro è un oggetto.

Guardiamo, vi prego, attentamente quel vissuto interattivo, impariamo a non nasconderci il viso con idee meravigliose che non hanno niente a che vedere con il nostro condizionamento relazionale: siamo degli oggetti gli uni per gli altri, oggetti di desiderio, di piacere, di provocazione, di successo, di conquista, che questa sia professionale, sentimentale, politica  o idealista. Ma sempre degli oggetti, degli oggetti per accontentarci. Perché degli oggetti? Perché definiti: ci mettiamo in scatola gli uni con gli altri, diventiamo un’immagine, un ricordo. Vedo dell’altro il ricordo che ho di lui. L’altro, lo assegno a una memoria. Lo delimito, come lui farà con me. Allora  la relazione con l’altro è una relazione d’interesse, “visto come è, mi aiuterà a fare carriera”, pieno di desiderio, per l’uno “sono catturato dal suo sapere” e per l’altro “non vedo che i suoi seni”, dove mescolandosi la libido, cerco la rassomiglianza. Cerco di assemblarmi, e mi attira l’inscatolarmi. E mescolandosi  le libido, non si sa, ciò che è tuo, ciò che è mio… ciò che è nostro. “ah, come mi piacerebbe vivere ciò che è nostro!”. L’appartenenza. Per non dover più dire “non sono compreso”. Nella nostra confusione, si cerca la fusione. Sicuramente la dolce fonte delle menti che, non dubitiamo un istante, riappariranno quando i sessi si saranno assuefatti e i corpi sufficientemente avviluppati, e il quotidiano diverrà per l’uno come per l’altro il luogo appropriato dove ciascuna di quelle menti, disincagliandosi e riprendendo la loro supremazia, si farà un dovere di affermarsi nelle proiezioni. ”Non hai riordinato il bagno. Sempre io me ne devo occupare”. “Per una volta puoi almeno mettere a letto i bambini.” ”Bisognerebbe davvero che tu cambiassi”. “Il tuo comportamento è deludente…”.

L’altro desideriamo sceglierlo con le nostre esigenze “come sei…, visto come fai le cose…”, con le nostre mani, vogliamo tenerlo con noi, con il nostro senso di superiorità, gli diamo un’apparenza di schiavo sottomesso. E tutto questo senza che abbiamo coscienza un solo istante. C’è una possibilità che  sia diverso da come lo vediamo? No, ci atteniamo all’idea che abbiamo di lui; invece di apprendere, non ci resta che prendere.

La relazione con l’altro Ma non c’è l’altro, l’altro non esiste, non ci sono che io e il mio desiderio, io e le mie attese e le mie speranze, e sono attirato dalla figlia del libraio, ma, perbacco, lei non se ne preoccupa. Io, è quel che voglio, è una donna che mi fa da mangiare e mi dà dei bambini. Una vita ben messa. E se lei non soddisfa, vuol dire che non è fatta per me.

L’olio e l’aceto non sono fatti per stare insieme. L’altro? Dev’essere conforme alle idee che mi sono fatta su di lui, perché le covo, le ripulisco, le lustro soprattutto per non cambiare direzione. L’altro non esiste, solo le mie idee alle quali mi attacco, tanto non so più quel che vuol dire innocenza, vulnerabilità, l’adesso, lì, subito.

Amiamo quelli che ci somigliano. Gli altri, ci si lamenta, si disprezzano, si combattono. Ah, non parlatemi del cane de mio vicino, e neanche del mio vicino…

La relazione è un rischio, Internet è lì per placare le nostre paure, ci incontreremo per e-mail.

E il conflitto? Un’amara atmosfera di proiezioni.

In  quella relazione con l’altro, che cosa genera il conflitto (indotto dalla nostra mente)? Sono le attese, i nostri desideri. E’ il semplice fatto che rifiutiamo la vita come si presenta a noi. Che cos’è la vita? E parlo qui della vita quotidiana. E’ il mio vicino con idee diverse dalle mie che si mette proprio davanti a me e mi impedisce di uscire. E’ quell’uomo di cui mi sono innamorata e che uscirà prima o poi dalla mia ruota mentale. E quando avevo una visione idilliaca di lui, era sordo alle mie richieste e mostrava il suo egoismo che non prevedevo e che rifiuto, perché rifiuto di vedere che sono io, solo io che l’ho rinchiuso in una ruota. Ecco che mi delude e che sono delusa perché non corrisponde all’immagine che avevo di lui. E gliene voglio perché è diverso da come immaginavo.

Cosa genera quei conflitti? E’, tra l’altro , che prendo le mie attrattive sessuali per amore, che considero l’amore una mercanzia e mescolo amore e aspettative, amore e speranza: “ti comprenderò e perfino farò lo sforzo di comprenderti se tu mi comprendi” , “riparerò il rubinetto se fai l’amore con me stasera” , “ti amerò se tu…”. Tranne che non è amore, ma una storia di potere tre due ammassi mentali identificatori.

Diremo che ci siamo fidati quando lui non lo meritava, senza renderci conto che fidarsi dell’altro, come qui, è farlo responsabile del nostro amore per lui. “Mi fido di te perché ti amo”, ma la formula non è terminata. “Ti amo se…” genera ineluttabilmente il conflitto… “Mi fido perché ti amo” ha il sapore amaro di un’esigenza che nascondiamo dietro i pensieri, i nostri desideri e le nostre attrattive per l’altro: “e se mi ami veramente, devi rispondere a questa fiducia che ti dò e non deluderla”. Ma l’amore non ha questa… esigenza. Non si commercia con questa fiducia data all’altro. E non temiamo di chiarire: “Non mi deve deludere perché l’amo e mi ama” diventa “Non deve deludermi l’idea che mi sono fatto di lei” perché in definitiva” finché  corrisponde alle idee che ho su di lei,  l’amerò. Il giorno in cui uscirà da queste, non l’amerò più.”

Tutto questo tanto più che la relazione è detta di coppia, o una relazione amichevole. Vedrò un giorno la mia  stupidità a pretendere di conoscere l’altro?… e a comprenderlo? L’altro, non posso conoscerlo. Può conoscermi veramente? No, ciò che si vede in me è assolutamente mutevole. Invece, il mucchio di nubi può essere conosciuto, facendo parte del conosciuto.

Volgiamo la nostra fiducia verso l’altro perché abbiamo paura di trovarci soli di fronte a noi stessi, quando tutto, interamente tutto, riposa in quel ritorno caloroso, in quella benevola messa a nudo.

“Ma che le è preso stamattina? Lei che è tanto dolce e tranquilla!”. Rimettiamo in questione la nostra straordinaria capacità di trasformare in un essere umano in una rappresentazione, che il suo contenuto sia capace di  compassione o senza speranza? Ci diciamo di conoscere le persone quando non cogliamo che la superficie, l’immagine del primo incontro. Ma è di noi che si tratta, è della nostra capacità di mettere in scatola e di conservare nella memoria quel contenuto, quelle idee che abbiamo. Poiché quelle idee mentali appartengono al passato e si appoggiano sulle nostre paure inconfessate, quelle di non potere controllare niente, comprendere niente e non sapere niente, di essere di fronte a qualcosa senza riferimento…, a quello di essere soli di fronte a noi e alle nostre esigenze. Non accettiamo le cose come ci vengono, perché pretendiamo di sapere cosa ci converrebbe e sarebbe buono per noi. E ne vogliamo alla vita, all’ordine sociale, ai politici e al nostro medico che non ci ha ascoltato nell’ultima visita. La soluzione facile sarà quella di attribuire la colpa agli altri.

Il conflitto è che ogni mattina pretendo di conoscere l’altro e di sapere cosa va bene per me e per lui, il mio rifiuto di prendere la vita come viene, il mio rifiuto contro la vita e le situazioni che mi manda, il mio torpore mentale che mi rende cieco e sordo,  il mio letto dove proseguo il mio sonno dove il mio sguardo si oscurerà, preso dalle mie illusioni mentali. Il conflitto è prendersi sempre per vittima e non vedere se l’altro mi ha fatto male, è soprattutto che io mi chiudo in quest’idea e non posso considerare la cosa in altro modo; se l’altro mi ha ferito, sono io ad essere ferito, io che mi attacco a un’immagine di me, che mi credo colpevole di qualcosa, che m’intossico per quella colpa di cui non ho coscienza perché l’automatismo immediato si chiama vittimismo. Questo non ti permette la chiarezza; non riconosco ciò che avviene in me. Questa tavola di disturbi può essere vista. A questo punto, mi ricordo, è un ritorno possibile, a che mentale mi identifico. E lo vedo: e il mio torpore mentale, il sonno facile, le mie idee limitate, l’oscurità che mi abita.

E lì, con il discernimento, vedo anche di cosa è fatta quella oscurità, perché divo passare di là: la disidentificazione non può aver luogo che per la conoscenza di ciò a cui mi identifico.

Con cosa mi identifico?

Se non vedo che mi prendo per una vittima, resto identificato. E l’identificazione mi acceca. Uscire dall’accecamento è staccarsi dalla situazione, dal personaggio, è il fatto che possa vedere ciò che mi agita interiormente, i miei turbamenti: quello di pensare di essere l’autore della mia vita, di paragonarmi agli altri, di credere di sapere ciò che va bene per me, come dovrei essere, di mettere in scatola chi incrocia il mio cammino, di pretendere di essere un’immagine limitata, di chiudermi in me e di pretendere di essere una vittima, di amare e di sapere quali sono tutte le cause del mio disagio.

Vedere

Allora la relazione con l’altro si chiarisce. Mi rendo conto che l’altro è me. L’altro, sono tutti gli altri che vivono in me e che non conosco. I miei pregiudizi che pensavo essere verità, le mie paure che penso di non poter guardare in faccia, i miei rifiuti di fronte alle mie emozioni, il mio inconscio che mi spinge senza che me ne renda conto. Quegli altri in rapporto ai quali avrei potuto essere in relazione, o non osavo, o pensavo che era inutile perché futile; imparo adesso, molto dolcemente, a guardarli in faccia. Allora, quel mucchio di nubi, considero, sono proprio io che l’ho messo in opera. Lo rispetto, mi assesto nella visione. Una visione amabile. Quegli altri che mi costituiscono non sono più tanto separati da me. Mi lego a quei frammenti, alla dispersione che mi abita. Facendo questo, constato che la relazione con l’altro , colui esterno a me, si modifica. La vedo: vedo ciò con cui l’altro si identifica, le sue idee., il suo passato, un insieme di memorie mischiate. Non voglio più cambiarlo, sono me stesso anch’io condizionato, a mio modo, dalla storia che ho vissuto e che ho preso per personale. Ecco, ascoltare soltanto. Non mi paragono più Vedo in me il bisogno di essere riconosciuto dall’altro, le mie proiezioni, la mia angoscia… La relazione con l’altro diventa una relazione nell’istante. Nessun concetto, ma tutto è del vissuto, del vivente, dell’adesso. Sono con ciò che si presenta ora, l’altro, la mia emozione, la sua pena, la mia proiezione, la mia angoscia e la sua collera. Vedo come quello agisce, dove, ciò che è toccato e perché c’è solo quello ora. Non domando più all’altro di comprendermi né di approvarmi. Vedo in me quando quello cerca di essere compreso, io lo vedo: l’altro mi permette di vedere dove sono con me, nel rifiuto o nell’accoglienza. Senza l’altro, mi sarebbe difficile conoscermi, l’altro è un rivelatore del mio mondo interiore.

La relazione con l’altro diventa una relazione…silenziosa. Perché occorre il silenzio per poter ascoltare ciò che l’altro cerca di dire dietro le parole, per ascoltare ciò che si risveglia in me. In quell’ascolto silenzioso, l’altro si rivela sia l’altro in me, sia l’’altro di fronte a me. Allora  c’è il rischio di amarsi, di lasciarsi attraversare dall’amore e di abbandonarcisi. Il prendere fa posto all’apprendere, lì, nello stesso istante dell’incontro. Allora si vede: dietro il mucchio di nubi, lo stesso silenzio, la stessa presenza, un amore senza potere, fresco nell’istante in cui si vive.