La paura e la dualità di Serge Carfantan

3ème Millénaire  n. 86 – Traduzione a cura della Dr.ssa Luciana Scalabrini

La paura ha un oggetto? O piuttosto, come pensa la maggior parte di noi, bisogna riconoscere che la paura non ha un oggetto, perché è così visceralmente ancorata in noi che è già nella mente prima di avere un oggetto?

La paura, il non conosciuto e la dualità

Esiste una formulazione di questa ipotesi nella rappresentazione comune. Se è un opinione ricevuta e che punta in questa direzione, è che la paura sarebbe fondamentalmente la paura dell’ignoto.

Guy de Maupassant, a partire da questo presupposto, ha scritto una breve novella, “La Paura”. In un treno che viaggia di notte il narratore parla  con un vecchio signore che guarda verso la porta. Improvvisamente, apparizione fantastica, attorno a un fuoco, fuori, a mezzanotte, due uomini barbuti, irsuti, seduti attorno a un fuoco mentre la notte d’estate è afosa.

“Vedemmo questo in un secondo: erano, ci sembrò, due miserabili rossi alla luce del fuoco con le loro facce barbute rivolte verso di noi, e attorno a loro, come uno scenario, gli alberi verdi, di un verde chiaro e lucente, i tronchi colpiti dal vivo riflesso della fiamma. Il fogliame attraversato, penetrato, bagnato dalla luce che vi colava dentro. Poi tutto ridiventò nero come prima.”

“Certo, fu una visione molto strana! Cosa facevano nella foresta quei due? Perché  quel fuoco in una notte afosa?”.

Lo spettacolo non avrebbe provocato nessuna impressione se ci fosse stata una conoscenza dei motivi per i quali i due uomini erano là. Non si conosce il perché di quella apparizione. Allora dal profondo sale un’angoscia sorda, una vaga inquietudine, un turbamento che non chiederebbe che di trasformarsi in spavento se invadesse completamente il campo. Non si ha veramente paura che di quello che non si comprende. Il leitmotiv della novella.

Turgenieff racconta un giorno che, dopo essere stato a caccia in una foresta russa fece un bagno in un fiume. Una mano si posò sulla sua spalla e ciò che vide fu un mostro famelico, una specie di gorilla terrificante che lo fece fuggire fino a che un valligiano non cacciò a colpi di bastone il mostro. L’essere spaventoso era un folle che viveva da trent’anni nel bosco e passava la metà del giorno a nuotare nel fiume.

Un po’ più  il là ancora nel testo di Maupassant, c’è ancora la storia dello spavento del narratore per aver visto passare una carriola che non era guidata da nessuno. In realtà lui cercava, in cattiva posizione per vedere, la statura di un uomo ed era un piccolo bambino che la spingeva.

In quei tre esempi, la paura scompare con la conoscenza del fenomeno, essa non si mantiene che nell’ignoranza delle cause. Nasce dall’ignoranza, sembra. L’ombra dell’ignoranza lascia il terreno libero all’immaginazione e l’immaginazione partorisce la paura connessa all’ignoto, dandole una forma. Ora, grazie alla scienza, disponiamo in ogni cosa di spiegazioni e  facciamo retrocedere la paura connessa con il non conosciuto. Ma giustamente Maupassant giustifica la paura volendo difendere nell’ignoto l’inconoscibile e il mistero. Il vecchio signore replica:  “Come doveva essere la terra una volta, quando era tanto misteriosa!”

Nella misura in cui si squarciano i veli dello sconosciuto, si impoverisce l’immaginazione degli uomini. Non trovate, signore, che la notte è vuota di un nero intenso, da quando non ci sono più apparizioni?

Ci si dice: più fantasia, più credenze strane, tutto l’inesplicato è spiegato. Il soprannaturale si abbassa come un lago esaurito da un canale; la scienza, di giorno in giorno, riduce il limite del meraviglioso.

Ebbene, io, signore appartengo alla vecchia razza, che vuole credere. Appartengo alla vecchia razza ingenua  abituata a non capire, a non cercare, a non sapere, fatta per i misteri che la circondano, che si rifiuta alla semplice e pura verità.

“Si, signore, si è spenta l’immaginazione indagando l’invisibile. La nostra terra mi sembra un mondo abbandonato, nudo e vuoto.”

Molte idee si scorgono in questa diatriba, che va districata con delle domande:

a)      In quale misura la paura è generata dall’immaginazione?

b)      La paura precede in qualche misura la forma che essa può prendere?

c)      Può esserci la paura dell’ignoto?

a)      Sulla prima domanda, nessun dubbio che l’immaginazione, giocando il suo ruolo sull’emozione, possa sviluppare la paura. Dal momento in cui appare una situazione sotto forma di un pericolo, il mentale si mette in movimento e molto rapidamente fa le sue costruzioni. L’immaginazione produce la figura dell’invisibile, un fantasma  per dare un oggetto alla paura.

Da un’emozione passeggera, l’immaginazione fa un danno terribile e di un incidente fa un dramma. Avvicinarsi al pericolo e conoscerlo meglio rallenterebbe il mentale e diminuirebbe la paura. Allontanarsene e fuggire non fa che rinforzarla, perché è privarsi  del punto d’appoggio dell’incontro con il reale. Un pericolo che fuggo mi terrorizza, un pericolo che incontro mi trasforma e trasforma la mia paura. Il solo fatto d’agire e di far fronte è essenzialmente azione contro la paura. Alain (Les passions et la sagesse) lo dice con finezza:“Si è visto anche che la paura è più grande da lontano e diminuisce quando si avvicina. E questo non è perchè si immagina il pericolo  più grande di quello che è; non è per quello, perché all’avvicinarsi di un danno vero ci si riprende. E’ proprio l’immaginazione che fa paura, per l’instabilità degli oggetti immaginari, per i movimenti precipitosi e interrotti che sono l’effetto e allo stesso tempo la causa di quelle apparenze, infine per un’impotenza d’agire che tiene meno alla potenza dell’oggetto che alle deboli prese che ci offre. Nessuno è bravo contro i fantasmi. Così il bravo va alla cosa reale con una specie d’allegria, non senza un che di paura, fino al momento in cui, l’azione, dove è difficile, con la percezione esatta, lo libera del tutto. A volte si dice che allora dà la vita; ma bisogna capire bene: non si dà alla morte ma all’azione”.

Che la paura sia intimamente legata al lavoro sotterraneo del mentale porta a un’altra ipotesi che Alain formula così: “non c’è altra paura, a ben guardare, che la paura della paura. Ognuno ha potuto notare che l’azione dissipa la paura e che la vista di un pericolo ben chiaro spesso la calma; invece che, nell’assenza di percezioni chiare, la paura si nutre  di se stessa, come lo fanno vedere bene quelle paure smisurate all’avvicinarsi di un discorso pubblico o di un esame”.

Perché la paura si nutra di se stessa, bisogna che il pensiero generi la paura di un pensiero e così materializzi un’illusione; così il fantasma ha ormai preso corpo, perché frequenta i percorsi che la mente attraversa, non essendo altro che un’idea fissa contro cui la mente è condannata a battersi. Se ho paura della paura, la paura farà liberamente carriera sotto tutte le forme possibili e immaginabili. Se potessi non aver più paura della paura, cioè non spaventarmi per un’idea, avrei finito con quel fantasma ingombrante.

b) Ma posso darmi  una ragione primordiale, una ragione metafisica. Questa volta. L’ultimo rifugio, per tentare di esorcizzare la paura, sarebbe di darle una consistenza, in quanto attributo fondamentale dell’essere. O piuttosto, se, come ammette Sartre, l’incontro con l’esistente, è l’incontro con la sua nudità dell’assurdo, allora  la mente costantemente va verso il non senso e l’angoscia è la prima  delle relazioni con l’essere. E’ un tema che è stato sviluppato molto dall’esistenzialismo, da Kierkegaard a Sartre, passando per Heidegger e che si ritrova nell’aristocratico del dubbio e dell’assurdo che è Cioran (Le livre des leurres):

“Aver paura di Dio, della morte, della malattia, di se stesso, non spiega per nulla il fenomeno della paura. Essendo la paura primordiale, può essere presente anche senza quegli oggetti”

Dire che la paura è primordiale, si può definire in due sensi:  è dell’ordine di un sentimento vitale, di una emozione vitale impossibile da sradicare, perché consustanziale al solo fatto di vivere, o la paura è attinente alla coscienza dell’esistenza che porta in lei il faccia a faccia con una sorta di “cosa” che improvvisamente produce la paura. Angoscia diventa allora una sorta di sentimento primo, metafisico, che precede ogni modalità psicologica. Il seguito del testo di Cioran ha questa ambiguità: “Il niente è causa di angoscia? Al contrario: l’angoscia è più verosimilmente la causa del niente. L’angoscia è generatrice dei suoi oggetti, fa nascere le sue cause. Così l’angoscia è in sé senza causa” (Cioran: Le livre des leurres). Dire dell’angoscia che è in sé senza causa vuol dire che è senza oggetto. Se non ha oggetto non è intenzionale. Il pensiero, come si struttura nella vigilanza, è intenzionale. Il pensiero della vigilanza si estende nella dualità soggetto/oggetto ed è intenzionale. Se qualcosa come l’angoscia potesse esistere prima di ogni intenzione, sarebbe prima di ogni pensiero, e se bisognasse attribuire a quella cosa una relazione con l’Essere, dovremmo concludere che l’angoscia è un pathos primitivo che viene dall’esistenza senza causa. Una volta ammesso questo presupposto, allora niente impedisce di giustificare favorevolmente la paura, dicendo che è bene per la sua sopravvivenza che l’uomo abbia paura, o che l’animale possa avere paura.

“Da quando gli animali non hanno più bisogno di avere paura gli uni degli altri, cadono nella stupidità e prendono quell’aria desolata che vediamo nei giardini zoologici. Gli individui e i popoli offrirebbero lo stesso spettacolo, se un giorno arrivassero a vivere in armonia, a non temere apertamente o di nascosto” (Cioran: De l’Inconvénient d’etre né ) Sottinteso: la relazione armoniosa con ciò che è sarebbe nociva, devitalizzante e la disarmonia della paura è vitalizzante, mantiene la vigilanza, l’assenza di paura sarebbe istupidimento. Come se fosse necessario tenere sveglio l’uomo con la paura e che senza quella cadrebbe nel torpore. Allora la paura è come il caffè, l’alcol le droghe ecc.: costringono alla vigilanza, impediscono il riposo e mantengono la tensione della vigilanza sul chi vive.

Tutti i presupposti che stiamo esaminando attengono strettamente allo stato dell’intenzionalità e della paura dell’ignoto. Ogni analisi della paura deve dare un’attenzione fondamentale a questi due aspetti: la relazione tra la paura e la dualità e l’interpretazione della paura come paura dell’ignoto.

Se scartiamo ogni presupposto e osserviamo molto da vicino ciò che appare  nel vissuto cosciente, faremmo fatica a trovare un senso all’espressione “paura dell’ignoto”. Il bambino che ha lasciato la mano  di sua madre e cammina a fianco dell’alligatore allo zoo, non ha paura. E’ sua madre che è terrorizzata perché sa che l’alligatore può essere pericoloso. E’ per questo sapere che ha paura, e nient’altro. Sa che l’animale può divorare un bambino, ha visto dei film dove anche un uomo è divorato, nel pensiero ha l’immagine della paura, una rappresentazione conosciuta che genera la paura. E’ perché il conosciuto è proiettato sullo sconosciuto che lo sconosciuto prende una forma. E’ la forma minacciosa, terrificante che fa paura. E siccome tendiamo a proiettare sullo sconosciuto i nostri terrori, ne risulta immediatamente che ne abbiamo paura. Ciò di cui abbiamo paura non è lo sconosciuto. E’ la forma terrificante del conosciuto proiettata nello sconosciuto. Lo sconosciuto in sé non può fare paura. Non fa paura perché non è più lo sconosciuto, ma lo sconosciuto ricoperto da una maschera ben conosciuta, di una maschera che il pensiero ha proiettato. Credere nell’esistenza di una maschera è proprio dell’illusione. Procedere nell’ignoto non è in sé niente di terrificante, è perfino il privilegio di una mente che liberamente si stupisce, si risveglia e si meraviglia. E’ la caratteristica di una mente posta in uno stato supremo di acutezza, di lucidità. Quel risveglio non ha niente a che fare con la paura. Il risveglio si tiene per se stesso, in se stesso; non è la paura che tiene l’uomo sveglio, è il Risveglio stesso. Ma vedere, con una proiezione del pensiero, davanti a sé nel proprio cammino i fantasmi delle proprie paure, è avanzare nel terrore. Che vuole dire avanzare nel conosciuto, certamente non nell’ignoto. Una mente umana popolata di terrori potenziali di quel genere, vive in uno stato i stress permanente, ed è della condizione umana . Non ha niente a che vedere con una relazione con l’Ignoto, ma al contrario con il conosciuto.

La relazione vera con l’Ignoto precede l’irruzione del pensiero. E’ là che c’è il Risveglio. Ma certamente non è con la vigilanza ordinaria. Il pensiero, nella vigilanza quotidiana, reifica la dualità soggetto/oggetto e in quel risveglio la coscienza è impaurita. Che lo vogliamo o no, bisogna ammettere che ciò che chiamiamo paura, nel nostro stato sedicente vigile, si definisce con un oggetto, ciò che fa paura , in correlazione con un soggetto, colui che ha paura. L’oggetto non esiste che attraverso il soggetto, nella struttura della dualità soggetto/oggetto. Ogni paura viene dalla dualità. La domanda: di cosa ho paura e la domanda: chi ha paura non sono dissociabili. L’oggetto della paura può prendere ogni sorta di forme. Dall’altra parte, chi è che ha paura? Io, l’ego, quel me, sempre afferma e insiste nella sua credenza, io ho paura di questo e di quello, essendo quelli gli oggetti delle nostre paure. A partire dal momento in cui il pensiero ha generato la paura, questa si concretizza nel corpo, ciò che fa subito credere che è molto reale. Il pensiero rapidamente somatizza l’emozione. Poiché questo stato è doloroso, ho desiderio di fuggire, perché mi ci vuole una scappatoia alla mia paura, che ho creato io. Allora vado al cinema, per dimenticarla, e per la mia paura di incontrarla e di confessarle il mio amore. Mi metto davanti al televisore per abbruttirmi e dimenticare la paura che mi attanaglia e che vorrei cacciare. In queste condizioni il bisogno di bere, di fumare, di drogarsi, di andare in un bordello o di andare in guerra. Si può anche tentare di sopprimere con violenza ciò che si considera la causa della paura, che è un’altra scappatoia. Violenza contro l’altro. Violenza contro di sé. Oggetti visti come cause delle mie paure. Bisognerebbe fare l’inventario dei nostri delitti di fuga davanti a noi stessi per trovare la sorgente delle nostre paure. Che cosa sono perciò quegli assalti d’ansia che invadono la nostra epoca, se non la paura installata durevolmente?

Lavorare sulla paura

Quando cominciamo a comprendere l’importanza del problema, allora viene l’urgenza di doverlo risolvere. Per questo è importante essere molto precisi. Infatti ci sono due forme di paura distinte:

1)      la paura vitale, che è un’emozione forte che si ha davanti ad un pericolo. In quel caso, sono provocato da una causa molto reale nella mia vita. E’ la paura che fa sì che eviti di sciare ai margini  di un crepaccio in montagna; la paura  davanti al cane da guardia che mi aggredisce; la paura che mi fa spingere a lato della strada per non essere travolto da un’auto. Questa paura non è specificamente umana. E’ un’emozione che si basa su un meccanismo istintivo. E’ la paura che sente ogni animale in presenza di un predatore, quella del lupo che reagisce drizzando il pelo davanti a un altro membro del gruppo che gli mostra i denti. La paura vitale ha il suo posto nell’economia della vita, permette la sopravvivenza come individuo minacciato nella sua integrità fisica. Questa paura protegge.

2)       La paura psicologica invece esce da una rappresentazione che genera una tensione che ci fa indietreggiare davanti  a una possibilità di cui ci rappresentiamo la venuta come pericolosa e inquietante. E’ la paura del bambino che crede che ci sia un fantasma nell’armadio. La paura psicologica non viene dall’identificazione di un danno reale, ma dall’anticipazione  di un danno possibile. In questa forma la paura è una minaccia potenziale la cui ombra è come un’ossessione che crea un’angoscia. Nel cuore umano ci sono molte paure di quel genere: paure legate alla sicurezza psicologica,  paura di vedere il compagno allontanarsi, paura della solitudine, paura della morte di una persona cara, ecc. Ci sono anche paure sociali: paura di trovarsi sulla strada senza lavoro,  paura di perdere una situazione vantaggiosa, di essere umiliato, ingannato, di non essere riconosciuto secondo un giusto valore, di non essere all’altezza di un determinato compito. Per una specie di contagio, la paura  dà allora  un senso di angoscia permanente in cui vivono molti, che non trovano nessun posto sicuro dove rifugiarsi.. E molto spesso, in fondo a tutte le paure, la paura della morte.

La relazione tra la paura psicologica e la paura vitale non è dell’ordine della necessità. Ma crediamo che lo sia. E quella credenza basta per suscitare una reazione vitale come se ci fosse effettivamente un pericolo reale e imminente. E così la paura psicologica è autogenerata. La paura vitale, lei, non costituisce un problema in sé, se sta al posto giusto. La paura psicologica invece pone effettivamente il terreno su cui proliferano dei problemi.

Possiamo entrare in contatto  con la paura e osservarla attivamente? Questo non vuol dire imparare a resisterle, o a come evitarla e sfuggirla. No. Conoscerla. E’ quello che propone Krishnamurti nel “Le vol de l’aigle”. Dapprima, se le paure sono davvero numerose,  “paura della morte, del buio, di perdere il proprio stato, di marito o di moglie, dell’insicurezza, la paura di non realizzarsi, di non essere amato, della solitudine, di non farcela”, la domanda è soprattutto: “Non sono tutte l’espressione di una paura centrale?”. Non si tratta solo di considerare un esempio in particolare, di fare un catalogo di tutte le paure, ma di portare l’attenzione sulla natura della paura.

Noi vediamo bene ciò che produce la paura e tutta l’importanza che ha per la mente essere in uno stato privo di paura, “perché con essa  c’è oscurità e la mente si indebolisce, poi cerca diverse evasioni, differenti stimoli, delle distrazioni, sia nella chiesa, allo stadio o alla radio. Una mente angosciata è incapace di chiarezza che ignora il senso della parola amore. Può conoscere il piacere, ma non ciò che significa amare. “La paura è distruttrice e indebolisce la mente” (Krishnamurti).

Una mente tuffata nella paura è come accecata. E’ spinta verso le scappatoie, nella ricerca temporale di una sicurezza nel futuro ed è incapace di restare nel presente. Resta prigioniera del tempo psicologico. La paura psicologica deriva dal fatto che la mente si appoggia su riferimenti del passato e proietta la paura della ripetizione di una sofferenza. Se ho sofferto nel passato “e il dolore era atroce, non voglio più ripeterlo e ha paura che ritorni. Cosa è successo? Spesso c’è quella sofferenza e il pensiero dice: “ – Che non ritorni! Fai attenzione.-  Pensando a lui, si teme la ripetizione ; è il pensiero che attira la paura”. ( K.)

E nasce l’ansia, che essa stessa è la paura installata in modo durevole come un secondo modo di vivere. E non solo questo, ma bisogna anche osservare  che ci sono in noi delle paure coscienti, ma anche quelle inconsce, che restano nascoste nelle pieghe più profonde della psiche.

Davanti al problema, l’aiuto più spesso usato è quello della psicanalisi. Ci si dice che dobbiamo passare ore e ore sul divano dello psicanalista, per analizzare le cause della paura ritornando sull’esperienza passata, sui traumi dell’infanzia, il complesso di Edipo, ecc. Ma il problema è che l’analisi prende tanto tempo e niente assicura che si possa risolvere il problema con il tempo. C’è urgenza e l’urgenza richiede un’azione immediata. Il “processo dell’analisi fa intervenire il tempo; in altre parole , per analizzarmi, ci vorranno giorni o anni. Alla fine di questi anni, io avrò ancora paura. Perciò non è l’analisi che conviene. Quando la casa brucia, non vi sedete per analizzare o andare da un professionista a dirgli: “- ditemi tutto ciò che devo sapere su di me – , ma vi occorre agire”.( K.)

Se vogliamo affrontare il problema della paura in modo radicale, dobbiamo escludere l’analisi. “L’analisi è una forma d’evasione, di pigrizia, di inefficacia. E’ forse  un atteggiamento da nevrotico, per andare  da uno psicanalista, ma anche in quel caso non troverà una soluzione alla sua malattia” (K.).

E se non cercassimo più nessuna soluzione, nessuna scappatoia? Una mente che rifiuta improvvisamente l’analisi si trova ricondotta direttamente alla paura e in uno stato estremamente acuto.

“Così mi trovo davanti quel problema, che una mente acuta, che ha rifiutato ogni forma di analisi, si propone di risolvere completamente e immediatamente. Di conseguenza, nessun ideale, nessuna questione di un avvenire dove ci si dice: voglio liberarmene. Così ci si trova ormai in uno stato di attenzione completa. Non si evade più, non si ricorre al tempo  come mezzo per risolvere il problema, non si fa l’analisi.

fa nessuna resistenza.”( K. ).

Ora, è proprio quando la mente non fa resistenza che è capace di comprendere, di vedere, di osservare la paura ed è soltanto nel “vedere” che si produce una dissoluzione della paura. Sfortunatamente abbiamo continuato ad avere un vecchio pregiudizio, quello di credere  che non ci si può liberare  dalla formazione di una abitudine che sviluppando un’abitudine contraria, e questo col tempo. Crediamo che è possibile combattere un’abitudine della paura coltivando  un’abitudine di fiducia. L’una e l’altra sono solo formazioni mentali. È essenziale osservare che  ogni forma di resistenza favorisce nuovi conflitti e che l’azione graduale  non distrugge l’abitudine della paura.

“Per essere liberi dalla paura non c’è bisogno di una resistenza che agisce in un certo lasso di tempo, ma ci vuole un’energia capace di affrontarla e distruggerla in un istante; questa è l’attenzione; essa è l’essenza stessa dell’energia. Dare la propria attenzione significa consacrare tutta la propria intelligenza, il proprio cuore, la propria energia psichica e con quella energia prendere coscienza, guardare in faccia quell’abitudine particolare. Vi accorgerete allora che non ha più presa, scompare immediatamente”.

E’ indispensabile comprendere che non possiamo lottare con le armi del mentale contro la paura perché non serve a niente. Il mentale è nella paura, chiuso in un cerchio da cui bisognerebbe uscire: il mentale elabora un’immagine di un oggetto causa della paura; una volta elaborato quell’oggetto, genera meccanicamente una reazione, che è legata in modo condizionato all’immagine dell’oggetto terrificante. Una volta prodotta la reazione, essa si autoperpetua  da sola come immagine ecc. E’ un circolo vizioso che impedisce che possa avere una soluzione intellettuale alla paura soddisfacente. La sola maniera di uscirne è vedere in modo crudo e lucido l’impotenza del mentale a risolvere  quello che lui stesso ha generato. Vedere fa apparire che non c’è soluzione nella fuga, nella lotta, nell’inibizione, cioè in nessuna reazione, perché ogni soluzione proposta è una fuga. Liberarsi dalla soluzione è liberarsi dalla tendenza a differire sempre e liberare una nuova energia che rende disponibile quella che era succhiata dalla ricerca di una soluzione. Ciò che è veramente presente è dunque la paura e l’intensità dell’energia per incontrarla. In una vigilanza passiva, una immobilità senza fuga. Non c’è soluzione, non ci sarà mai rimedio, perché la paura non ha fondamento. Come potrebbe avere un qualsiasi rimedio ciò che non ha fondamento? La paura non ha origine fuori dal pensiero e, vista nel pensiero, non ha realtà. Dunque non si può conoscere dagli effetti, molto reali, che essa produce.. Questi sono ben percepibili dal corpo di carne, nella postura, nei tratti del viso, nelle emozioni e lì è possibile un lavoro, che consisterà nel mettere a nudo ciò che è nascosto.

Ogni lavoro serio sulla paura è liberatore e, finchè non conosciamo quell’affrancamento, dovrà essere perseguito. L’accesso alla presenza passa attraverso quella porta. La paura può operare un passaggio iniziatico a una forma di coscienza più elevata, a condizione che sia osservata e compresa in profondità. Essa mette a nudo i nostri condizionamenti, quello che è chiuso, nascosto in noi. La comprensione della paura come struttura fondamentale dell’esistenza umana non è dunque una questione secondaria, ma è fondamentale e non può essere evitata. Allora bisogna prenderne coscienza, piuttosto che cercare di eluderla, perché in questo modo non faremmo che incoraggiare un processo nato dall’illusione.